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Giorgio Vallortigara: “La scienza non è il possesso di certe conoscenze, ma il metodo scientifico”

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Giorgio Vallortigara è un neuroscienziato il cui campo di ricerca prevalente è rappresentato dalla cognizione numerica e dalla predisposizione biologica al riconoscimento di agenti animati in vari modelli animali. Vallortigara insegna Neuroscienze al Centre for Mind-Brain Sciences dell’Università degli Studi di Trento. Lo abbiamo intervistato al Salone del Libro, dove presentava A spasso con il cane Luna edito da Adelphi.

Nelle prime pagine del Suo libro Il pulcino di Kant, Lei parla della fascinazione per il mestiere di spia. Secondo Lei, c’è tra le persone una predisposizione innata a certe civiltà intellettuali? Penso, a esempio, al fatto che la spia, come il ricercatore, sia alla ricerca di una verità che si costruisce attraverso un processo che la può portare anche a cambiare.

Mi sembra molto probabile. Abbiamo delle prove dirette nelle neuroscienze, almeno in un caso. Molti anni fa, mi sono occupato con altri colleghi di quegli animali che fanno provviste di cibo, come certe specie di corvidi, che sono capaci di ricordare dove hanno nascosto cibo alla fine dell’estate per recuperarlo vari mesi dopo, all’arrivo della brutta stagione. Queste sono prestazioni eccezionali e infatti non si pensava che ci fossero equivalenti umani di queste capacità. Questo fino a che una collega inglese, Elizabeth Maguire, ha sostenuto l’esistenza di un gruppo umano con capacità di orientamento spaziale assolutamente similari: i tassisti londinesi. I tassisti londinesi sono famosi perché, per diventare tassisti, devono seguire un lungo periodo di prove che culmina nell’ottenimento della licenza chiamata The knowledge. Il tassista, infatti, conosce non solo la topografia della città, ma è in grado di fornire al cliente una serie di informazioni accessorie sulla zona, dove trovare un buon ristorante per esempio. Per realizzare questa abilità cognitiva, i tassisti londinesi, esattamente come i corvidi, mostrano un incremento selettivo di una regione del cervello, l’ippocampo. Questo è legato in parte a fattori esperienziali, cioè all’esercizio, ma in parte è anche legato a una predisposizione naturale che ci fa decidere, nella misura in cui questo è possibile, di svolgere un mestiere che le sia compatibile.

Sempre in Il pulcino di Kant Lei parla di risposte simili da parte di pulcini e bambini ad uno stesso test di imprinting. Nei bambini però si osserva una differenza nella risposta tra i bambini provenienti da una fascia di popolazione a basso rischio di autismo e invece una ad alto rischio. Ritiene che questi esperimenti possano in qualche modo fornirci degli elementi con i quali implementare l’educazione dei bambini che mostrano segnali di autismo precocemente?

Sì, la motivazione dietro a questa ricerca è esattamente quella di sviluppare strumenti per la diagnosi precoce per i disturbi dello spettro autistico. Quello che noi abbiamo studiato, sia nei nostri modelli animali che nei neonati a sviluppo neurotipico, è che c’è in partenza una serie di meccanismi cerebrali – gli animacy detectives, cioè rilevatori di animatezza – che servono a riconoscere la presenza nel mondo di cose viventi e soprattutto alcuni viventi specifici, come la mamma o i parenti in generale. Ci siamo chiesti cosa accade quando, per differenti ragioni, queste capacità non siano presenti. Abbiamo ipotizzato che potesse essere il caso dei bambini con disturbi dello spettro autistico. Il problema è che questi disturbi possono essere diagnosticati solo a partire dai 2-3 anni di età, quindi per circumnavigare il problema abbiamo condotto uno studio su bambini ad alto rischio. I bambini ad alto rischio sono fratelli o sorelle di bambini che soffrono di disturbi dello spettro autistico. Tipicamente i genitori di questi bambini sono molto interessati alla ricerca, molto proattivi: c’è in Italia e anche in altri paesi d’Europa una rete che ci consentiva di metterci in contatto con queste famiglie e sottoporre i bambini ad alcuni semplici test. Abbiamo constatato che questi bambini non manifestano questa selettività ai segnali di animatezza e quindi abbiamo dei test comportamentali o anche elettrofisiologici facili da somministrare a tutti i bambini appena nati che possono segnalare delle anomalie.

Invece nel suo ultimo libro, A spasso con il cane Luna, Lei riflette sulla sensienza e sull’intelligenza. In particolare, in un passaggio parla di persone con gravi handicap cognitivi che possono non essere in grado di risolvere problemi alla portata di animali che noi consideriamo non senzienti, come i pesci. Come si pone secondo Lei questa riflessione rispetto a temi molto complessi ma molto attuali come il fine vita?

Io credo che ci sia un equivoco di fondo del quale sono responsabili in parte i ricercatori che si sono occupati in questi anni di cognizione animale. L’evidenza che è stata raccolta, cioè che altre specie sono capaci di svolgere attività cognitive molto complesse, è stata interpretata – anche surrettiziamente, da un certo tipo di retorica animalista – come evidenza di scienza, di senzienza. Noi sappiamo che queste attività cognitive complicate possono essere svolte anche in assenza di consapevolezza. Il fatto di essere intelligente e senziente sono distinti e separati. Jeremy Bentham lo sapeva bene quando diceva: “Che ci importa se sanno ragionare o se sanno parlare, il punto cruciale è: soffrono? provano dolore?”. Quanto al fine vita, il punto rilevante è il mantenimento o meno dell’attività cerebrale, ma soprattutto di quell’attività cerebrale che è molto più frequentemente associata a sentire qualcosa, provare qualcosa che non si manifesta a livello della corteccia ma in territori più profondi del cervello.

Ancora in Il pulcino di Kant, Lei scrive che le predisposizioni biologiche rendono possibile l’apprendimento. Sarebbe scorretto di dire che, deterministicamente, l’apprendimento di cui siamo capaci dipende da quanti istinti, o meglio, da quante predisposizioni biologiche abbiamo?

Polemicamente spesso sintetizzo questo punto di vista – che non è quello canonico, stereotipato – dicendo che gli esseri umani hanno più istinti di altri animali proprio perché abbiamo elevate e sofisticate capacità di apprendimento. I meccanismi che chiamiamo istintivi, le predisposizioni biologiche, hanno una funzione molto precisa, che è quella di rendere possibile, di rendere sufficientemente svelto, veloce, il processo di apprendimento. Pensiamo all’esempio di prima, relativo ai meccanismi dell’animatezza o alle facce. Se un bambino dovesse imparare sulla base della sola esperienza a riconoscere il volto della madre sarebbe in grande difficoltà. Questa è la ragione per cui la selezione naturale ci ha messo a disposizione quella che Lorentz chiamava “un’innata maestra elementare”, un sistema di guida che ci dice a esempio che le facce hanno tre blob ad alto contrasto, due sopra e uno sotto.

Soprattutto dopo la pandemia da Covid-19, la percezione è che la fiducia nella scienza sia diminuita. Secondo Lei, perché e quale ruolo possono giocare i media nella creazione di una società informata e consapevole dell’importanza della scienza?

Credo che la regola principale sia quella di spiegare che gli scienziati non sono i possessori della verità, in alcun modo: quello che caratterizza la scienza non è il possesso di certe conoscenze, ma è l’utilizzo di un metodo, che è il metodo scientifico. Se noi insegniamo al grande pubblico che questa è la grande forza della scienza – essere un continuo fare e disfare ipotesi – noi abbiamo reso un buon servizio alla comunità civile nel suo complesso. Bisogna spiegare che noi non abbiamo il possesso delle verità , però abbiamo un buon metodo per avvicinarci a cose ragionevolmente certe.

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