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Gerusalemme non è una città per tutti

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Dal 10 maggio Gerusalemme è nel caos, sotto il fuoco incrociato di Israele e Hamas. L’innesco ha coinciso con la ricorrenza di due feste nello stesso giorno: la fine del Ramadan per i musulmani, il Jerusalem Day per gli ebrei. Teatro delle tensioni, il quartiere storico Sheikh Jarrah, a est di Gerusalemme e a maggioranza palestinese.

Lì si trova al-Aqsa, la terza moschea sacra dell’Islam dopo quelle di La Mecca e Medina, dove la polizia israeliana si è scontrata con i civili: 300 palestinesi sono rimasti feriti. A generare le tensioni, le proteste dei palestinesi contro una marcia simbolica, prevista per festeggiare la conquista israeliana della parte est della città durante la guerra dei sei giorni del 1967. La marcia avrebbe dovuto attraversare anche quartieri e luoghi simbolo della comunità musulmana, come la porta di Damasco. I palestinesi hanno ritenuto l’iniziativa provocatoria, e i militari sono intervenuti intorno alla moschea di al-Aqsa sparando proiettili di gomma e lanciando gas lacrimogeni e granate stordenti.

A seguito delle proteste Hamas ha lanciato l’ultimatum; se i coloni israeliani non si fossero ritirati dall’area della moschea e da Sheikh Jarrah, avrebbero attaccato Gerusalemme con dei missili. E così è stato: il 10 maggio la città è stata colpita e, in risposta, Israele ha bersagliato 140 obiettivi militari nella striscia di Gaza.

“Che l’attenzione si sia spostata da Gerusalemme a Gaza non è un bene”, dice Chiara Cruciati, giornalista de Il Manifesto che si occupa della questione palestinese. “In questi ultimi mesi si sta sviluppando un movimento spontaneo contro un’occupazione israeliana sempre più aggressiva e intollerabile. Spostare l’attenzione su Gaza mette in sordina le tensioni popolari”.

Dietro la protesta c’è la lunga contesa del quartiere Sheikh Jarrah. Alcuni gruppi di israeliani, nei mesi scorsi, hanno chiesto alla Corte suprema lo sgombero di diversi alloggi occupati da tre famiglie palestinesi. La sentenza era prevista per il 10 maggio, ma il procuratore generale di Israele ha rimandato la decisione per non esacerbare gli animi. “Non è stata la scelta migliore – prosegue Cruciati – anche perché il verdetto è già scritto. Israele, nei suoi 73 anni di vita, ha creato un sistema legislativo che ha legalizzato l’occupazione sistematica dei territori abitati dai palestinesi”.

E in effetti gli scontri di Gerusalemme sono lo specchio di quella frattura insanata tra occupanti israeliani e occupati palestinesi. Dal 1948, anno del primo conflitto arabo-israeliano, Il neonato Israele ha iniziato ad appropriarsi della Palestina con l’appoggio della comunità internazionale. Da lì è iniziata la diaspora di più di 5 milioni di nativi: a Gerusalemme i residenti sono stati cacciati dalle loro case e si sono rifugiati in precise zone della città, e poi in Giordania, in Cisgiordania, nella striscia di Gaza.

Gerusalemme è specchio di questo conflitto perché numerosi sono stati gli sgomberi e gli espropri a danno dei palestinesi nel corso degli anni. “Esistono leggi israeliane che permettono agli occupanti di rivendicare le case appartenute ai palestinesi – dice Cruciati – mentre a questi ultimi viene negato il diritto di conservare la propria abitazione. Anche se si tratta di rifugiati, di persone che abitavano a Gerusalemme prima del ’48”.

Che la città sia una terra contesa, e che ad avere la meglio sia Israele, lo dimostra la condizione di apolidi dei palestinesi residenti. A differenza di quelli che vivono a Tel Aviv o a Giaffa, hanno solo un permesso per risiedere, che rende la loro condizione molto precaria e soggetta a decisioni arbitrarie. “Circa 15 mila palestinesi sono stati privati della residenza dal 1967 a oggi. La stessa legge israeliana li denomina ‘immigrati nativi’, un ossimoro che disvela una realtà inquietante”, dice Chiara.

I fatti degli ultimi giorni confermano una policy lunga 70 anni del governo israeliano nei confronti della comunità palestinese. “Si chiama colonialismo di insediamento – spiega Chiara – per cui gli occupanti non sfruttano gli occupati, ma semplicemente tentano di appropriarsi dei loro spazi e dei loro beni”.

Quanto sta accadendo nella città santa torna utile anche a Benjamin Netanyau, in un momento di forte debolezza politica. Dopo 12 anni di mandato da primo ministro, pur essendo alla guida del primo partito del Paese, Likud, non è riuscito a formare un nuovo governo. Ha diversi addebiti per corruzione, e sostiene le frange dell’estrema destra per cercare di recuperare terreno. “Una crisi del genere fa comodo – spiega Cruciati – perché Netanyau è l’unico in grado di mostrare il pugno di ferro, di saper gestire la situazione agli occhi del popolo e della comunità internazionale”.

Oltre all’instabilità politica, altri fattori non aiutano a risolvere una crisi permanente. Anzitutto la pressione della comunità internazionale, che attualmente non c’è: “Un popolo che ha privilegi non li cederà, se non gli conviene farlo – dice Cruciati. A Israele è utile politicamente ed economicamente occupare, e se non gli vengono imposte sanzioni non avrà motivo per cambiare questo stato di cose”.

Ma importante è anche una dimostrazione di unità palestinese, da un punto di vista politico. “Il movimento che si sta sviluppando a Gerusalemme è apartitico e non legato ai vertici dell’Anp [Autorità nazionale palestinese, n.d.r.]”. Quest’ultima è un’entità amministrativa, che rappresenta solo una parte dei palestinesi – in particolare dei residenti a Gaza e in Cisgiordania – e non ha alcuna vocazione politica. “È indicativo che la forza palestinese, al momento, emerga da movimenti indipendenti di persone, legate dal vivere una situazione particolare: un’occupazione ingiusta”.

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