“È la disuguaglianza a spiegare il merito, non il contrario”. La pensa così Maurizio Franzini, professore emerito di Economia e Diritto all’università “La Sapienza” di Roma. Con la creazione del ministero dell’Istruzione e del Merito da parte del governo Meloni sembra si sia riesumato un linguaggio anacronistico, che rimanda ai tempi remoti dei banchi del dopoguerra, delle bacchetta sulle mani, delle ginocchia sui ceci. Ma il merito non è solo un principio educativo e di buonsenso. Oggi viene spesso tirato in ballo quando si tratta di trovare giustificazione alle disuguaglianze socio-economiche.
I top manager di un’azienda guadagnano cifre inimmaginabili? Si paga l’esperienza, il talento, la formazione di alto livello. Sono argomentazioni atte a rendere accettabile l’idea che nella società la ricchezza sia distribuita in modo iniquo. In realtà, come dice il celebre economista della disuguaglianza Amartya Sen, l’idea di meritocrazia può avere molte virtù: “La chiarezza non è tra queste”.
Cosa si intende quando si parla di merito? Per Franzini, che ha tenuto una lectio magistralis all’Università di Torino in occasione dell’anniversario dalla creazione del laboratorio di Economia politica di Cognetti de Martiis, è “un concetto insidioso, scomodo”. Esistono due idee contrapposte di cosa dovrebbe essere merito. “Una è legata al contributo che una persona dà, per mezzo del proprio lavoro, al benessere sociale”, spiega il professore. L’altra invece fa riferimento a una felice combinazione di sforzo e talenti, che produce risultati positivi al di là delle condizioni di partenza (famiglia, condizioni sociali, fortuna).
Si tratta di posizioni inconciliabili. Se si immagina il Ceo di un’azienda che si arricchisce attraverso il suo lavoro, si è portati a pensare che se lo “meriti” in virtù del contributo che dà alla società attraverso la sua occupazione. “Ma il contributo può essere alto nonostante le persone ci mettano poco sforzo e poco talento”, commenta Franzini. Pensare che sia una logica di mercato a premiare il merito significa non considerare la seconda delle due idee contrapposte: la fortuna, l’ambiente sociale in cui ci formiamo, le opportunità che il capitale relazionale della famiglia fornisce alle persone, giocano un ruolo di primaria importanza. In una società diseguale, parlare di merito ignorando questi elementi fortuiti che poco hanno a che vedere con la volontà individuale è problematico.
Non è un problema di linguaggio: il mito del merito incide fortemente sul modo in cui affrontiamo la povertà. La concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi si fa sempre più netta. Le diseguaglianze, secondo un recente rapporto Oxfam dal titolo emblematico La disuguaglianza non conosce crisi, non fanno che aumentare. Negli anni della pandemia (2020-2021) l’1% più ricco della popolazione mondiale ha visto crescere il valore dei propri patrimoni di 26mila miliardi di dollari (in termini reali), riservandosi il 63% dell’incremento complessivo della ricchezza netta globale (42mila miliardi di dollari). Si tratta di un valore quasi doppio rispetto alla quota (37%) andata al 99% più povero della popolazione mondiale. Il record del decennio 2012-2021 è stato dunque battuto. All’epoca l’1% della popolazione aveva beneficiato del 54% dell’incremento della ricchezza del mondo.
“Si può parlare di merito dei super ricchi? Ad esempio, pensiamo alle star dello sport e dello spettacolo. Possono raggiungere platee enormi di spettatori che diventano fonte di reddito per la pubblicità. Ma qual è il talento aggiuntivo di Ronaldo o di Messi su Pelé? È misurabile? Pelé secondo Forbes ha raccolto un patrimonio valutato in 100 milioni di dollari, in gran parte accumulati dopo la fine della carriera”, osserva Franzini. Si pensa spesso che la ricchezza acquisita sia il corrispettivo in termini di “merito” del contributo sociale che una persona dà al benessere della collettività.
In realtà, considerando stili di vita meno eccezionali, bisogna tenere conto che in Italia la disuguaglianza tra percettori di reddito da lavoro è cresciuta. Lo racconta ancora Franzini attingendo a dati Istat, l’istituto di statistica di cui è stato presidente nel biennio 2018-2019. Un ingegnere proveniente da una classe sociale povera, ad esempio, viene pagato mediamente il 25% in meno rispetto a chi svolge lo stesso identico lavoro ma proviene da una classe sociale agiata. “Nel frattempo secondo voi è diminuito lo sforzo delle persone, o il talento è peggiorato? Non credo. È legittimo nutrire sospetti rispetto a questa affermazione”. Le origini familiari, per Franzini, sono un “fattore di potenziale riproduzione e trasmissione delle diseguaglianze su scala intergenerazionale”. Un moltiplicatore di iniquità.
Circa il 40% dei laureati, poi, in media guadagna meno di un diplomato. Per Franzini la questione è legata al fatto che “molti figli dei ricchi che non si sono laureati riescono con un titolo più basso a lavorare e guadagnare redditi da lavoro maggiori”. La retorica del “sogno americano” e del “se vuoi puoi” dovrebbe essere letta così: se vuoi, se la tua famiglia ha le risorse economiche per garantirti studi di qualità e risorse relazionali per trovarti un posto di lavoro di alto livello, puoi.
Anche se rendesso più equo l’accesso all’istruzione, sottolinea il professore, questo non basterebbe ad eliminare la disuguaglianza. Il tema fondamentale del capitalismo contemporaneo, infatti, è per Franzini soprattutto il “capitale relazionale”. La mobilità sociale – ossia la possibilità per persone di classi sociali poco abbienti di migliorare la propria situazione socio-economica rispetto al contesto di provenienza – viene concretamente ostacola da questa risorse immateriale che spesso manca a chi non appartiene a una famiglia prestigiosa.
Lasciare il mercato decidere autonomamente di premiare alcuni individui invece di altri significa ignorare che la sua razionalità si costruisce sulla base di aberrazioni del sistema. Per come lo intendiamo di solito, il merito sembra avere a che fare “con il mercato, non con la redistribuzione”, dice Franzini. “Ma le diseguaglianze – spiega – vanno superate con la pre-distribuzione”. Solo così, per Franzini, si può agire efficacemente: intervenendo per evitare preventivamente che si formino tutte quelle condizioni che rendono la società contemporanea una società profondamente diseguale.