Le nuove tecnologie protagoniste alla prima giornata del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia. La tredicesima edizione del festival si è aperta il 3 aprile all’hotel Brufani, nel centro storico del capoluogo umbro.
Possiamo utilizzare la tecnologia per fare giornalismo migliore? Può aiutarci a distinguere il vero dal falso? In un mondo di fake news e clickbaiting, i social network posso essere croce e delizia per i giornalisti, come li ha definiti la giornalista e scrittrice Barbara Sgarzi.
Abbiamo seguito tre incontri, diversi tra loro ma con questo unico filo conduttore.
Come i giornalisti possono costruire comunità informate su Facebook
“Creare relazioni profonde è la chiave per farsi conoscere da più persone”, a dirlo è Livia Iacolare, head of media partnership di Facebook Italia.
Come si fa? “Creando contenuti di qualità”, continua Iacolare, che prima di approdare a Facebook ha lavorato anche per Twitter. “Non si devono offrire articoli che non diano un plusvalore al lettore. Titoli enfatici e commenti o like chiesti espressamente sono strumenti utili nel breve, ma che alla lunga generano un senso di sfiducia nel lettore, che non visiterà la pagina in futuro, o quantomeno ne avrà una percezione molto diversa”.
L’algoritmo di Facebook, infatti, tiene conto non solo delle interazioni generate in passato, ma anche del probabile interesse della notizia e su quanto sarà significativa per il lettore. Su questa probabilità, l’algoritmo assegna poi un valore, un punteggio, che ne condiziona la circolazione.
“Le interazioni, però, non sono tutte uguali”, analizza Iacolare. “La condivisione con commento è diversa da una semplice reaction, come un mi piace lo è da un commento più ampio, e queste differenze incidono su un contenuto”. È fondamentale conoscere queste funzionalità per creare contenuti di valore che permettano non solo la creazione, ma soprattutto il rafforzamento di community vive e identitarie.
Linguaggio d’odio nei commenti dei lettori delle pagine Facebook dei quotidiani online
“Noi contro loro, ci invadono, fate razzismo alla rovescia”. Non sono slogan di partiti estremisti, ma i principali filoni retorici che si rincorrono nei commenti su Facebook. Mirella Marchese, ricercatrice presso l’Osservatorio di Pavia, ha studiato le interazioni ai post dei giornali italiani sulle piattaforme social in una ricerca “non quantitativa, ma che ha l’obiettivo di dare risalto a una questione nascosta”. Quello che maggiormente risalta dallo studio è proprio l’impermeabilità delle persone ai commenti razzisti, estremisti e violenti. “Quanto è alta l’assuefazione del pubblico? – continua Marchese – Siamo così abituati a contenuti di un certo genere che pensiamo che internet sia l’habitat ideale per questo tipo di retorica, un non luogo dove tutto è lecito”.
La vera domanda, però, è un’altra. A cosa servono i commenti? “Dovrebbero aumentare il valore di un articolo”, dice Giovanni Ziccardi, professore di Informatica giuridica all’Università di Milano che ha partecipato al dibattito. “Qualche tempo fa, il National Geographic voleva eliminarli. Non rendevano l’articolo più interessante, erano solo una arena in cui le persone potevano sfogarsi le une contro le altre”.
La vera risposta, però, è un’altra. “Sono business – continua Ziccardi – rigenerano la pagina e creano profitto”. Ci sarebbe bisogno di moderazione, ma da dove può arrivare? “Dalla stessa Facebook”, prosegue Marchese. “Ma il diritto americano è diverso da quello europeo e non tutti i reati corrispondono. Ci sarebbero i giornali, ma tra i tre grandi quotidiani nazionali presi in esame (il Corriere della Sera, La Stampa e La Repubblica), solo La Stampa si è dotata di una policy specifica”. Qual è una possibile soluzione? “Il contributo più efficace – conclude Marchese – può arrivare dagli stessi lettori. Durante lo studio, si sono riscontrati casi in cui a ribattere erano proprio altri utenti. Un fact-checking dal basso può essere utile non solo per zittire i commenti di odio, ma soprattutto per non fare in modo che ai lettori arrivi una visione distorta dei fatti”.
Cosa può fare la tecnologia per il fact-checking: esempi pratici dall’Europa
Barbara Sgarzi, giornalista e membro di Ona (Online News Association) e il direttore di Pagella Politica Giovanni Zagni hanno mostrato nuove tecnologie che permettono ai giornalisti e agli utenti di valutare l’accuratezza dei contenuti digitali.
“Non si tratta solo di bufale e debunking”, dice Zagni. “La questione riguarda anche il modo in cui interpretiamo e valutiamo le nostre fonti. In aggiunta, non dobbiamo confondere le notizie false, ma espressamente di satira, con quelle create con il preciso intento di manipolare le opinioni”.
“Arriva la foto di un incidente stradale appena avvenuto, – provoca la Sgarzi – Viene inserita come copertina, ma che cosa succede se quella è la foto di un altro incidente, in un’altra parte del mondo, di sei mesi prima?”
Con le nuove tecnologie, è possibile evitare sul nascere questo genere di situazioni. Dalla ricerca per immagini di Google al Jeffrey’s Image Metadata Viewer, software che permette di ricevere tutti i metadata di una immagine. Quando è stata scattata, dove e da quale dispositivo. “E se non compaiono metadati – continua Zagni – è altrettanto significativo, perché dimostra come quella immagine sia già stata utilizzata, abbia avuto una storia”. Analogo poi il funzionamento di Youtube DataViewer.
Per le fonti, infine, è necessaria spesso qualche analisi aggiuntiva, e i social in questo caso sono un prezioso serbatoio di risorse, e informazioni. Truthnest, ideato per Twitter, ci permette di conoscere nel dettaglio l’attività di un singolo utente, il suo network, ma soprattutto la sua influenza. “Sapere quando twitta, quanto e quale tipo di contenuti è utile per farci l’idea di una persona e capire la sua affidabilità”, sottolinea la Sgarzi.
Tecnologia analoga ma riferite a Facebook sono invece Stalkscan e Whopostedwhat, dove si può anche utilizzare un filtro temporale. Per Instagram, infine, si menziona Ninjalitics.
Se le nuove tecnologie hanno lanciato sfide importanti al giornalismo, non è detto che, per superarle, il giornalismo non possa usare strumenti ancora più innovativi.