Nasce come Jari Ivan Vella ad Alpignano nel 1985, a quindici chilometri da Torino ma il rap lo impara nel capoluogo piemontese che chiama la City e la sente sua. Quando inizia la scena hip-hop è ferma dopo la prima ondata, quella degli anni Novanta, che era riuscita a educare un piccolo pubblico alla musica che veniva da oltreoceano. Quando il rap sbarca in Italia a Bologna c’erano Deda, Neffa e Dj Gruff a comporre i Sangue Misto in competizione con la scena milanese degli Articolo 31 di J-Ax e Dj Jad, spopolavano i Sottotono di Fish, Tormento e Nega. A Roma gli Assalti frontali e i Colle der Fomento dettavano la linea di quella che sarà la scuola capitolina dell’hip-hop, mentre sotto la Mole alcuni pionieri facevano la storia: nei primi anni ‘90 Left Side conosce Next One e insieme con Mauri B fonda The Next Diffusion. Tutto questo accadeva sul finire del millennio scorso, poi il nulla. Nei ricordi di Jari, i primi anni del 2000 sono stati confusi, di fermento e rabbia perché pensava di essere: “Nato in un periodo storico sbagliato, credevo che questa musica non sarebbe andata da nessuna parte. Mi sbagliavo”. Questo è Jari Ivan Vella, ma forse voi tutti lo conoscete come Ensi.
Com’era Torino e come ricordi la scena?
“L’hip-hop non aveva attecchito e la scena degli anni Novanta era per pochi. Nei primi del 2000 il rap attraversava un periodo di grande depressione, c’era poco interesse da parte delle case discografiche. Eravamo delle mosche bianche che volavano sulle ceneri di un genere già considerato di nicchia. I luoghi di aggregazione per questa musica mancavano e quelli storici erano poco frequentati”
Poi sono arrivati i OneMic…
“Noi arriviamo da quella scuola lì del rap. Qualcosa stava covando, ma non potevamo saperlo per quanto sentissimo ci fosse fermento. La nostra idea, il nostro background, veniva da quegli anni. Il nostro bagaglio artistico consisteva nell’unire i dischi che negli anni Novanta avevano fatto la storia, ai primi esperimenti degli anni 2000”.
Come vi siete fatti strada?
“Con le battle di freestyle, le serate open mic, i concerti ai quali andavi anche se non eri stato invitato. C’erano ancora le leggende, la vecchia scuola, dalle quali imparare a capirci qualcosa in più, ci siamo strutturati. Il nostro stile era molto rappresentativo della città, ma si è sviluppato col tempo. Venendo da ascolti diversi, Kaos e Sangue Misto, ma anche i Sottotono, tra i quali c’era dualismo all’epoca. O ascoltavi uno o l’altro. A noi di tutte queste fisse dell’hip-hop non ce ne fregava e abbiamo fuso tutto. Eravamo una contaminazione tra vari modelli”.
Ascoltavi solo rap?
“Se mi guardo indietro vedo solo dischi rap. Mio fratello (Raige, un altro dei fondatori del gruppo OneMic n.d.r) era di due anni più grande, reperiva più cose, le portava a casa e le ascoltavamo. Non capivamo nemmeno di cosa parlassero ma sentivamo qualcosa, eravamo attratti da questa cosa”.
Poi nel 2005 la seconda ondata. La trainate voi con l’album “Sotto la cintura” e con questo disco create il “OneMic stilo”, uno stile particolare. Come nasce?
“Arriviamo tutti e tre dalle gare di freestyle, io soprattutto, vincendo tutto quello che c’era in competizione allora, in età prematura visti gli standard. Lo stile ha settato un trend: quello della contaminazione tra le “punchline”, le linee affilate, le metriche serrate e i brani di contenuto. Brani che parlano di noi, pezzi dedicati ai rapporti, canzoni sugli affetti. Una dimensione molto umana. Abbiamo attecchito per la capacità lirica, riconducibile alle abilità di freestyler, e a quelle di penna, trainata dai testi molto più viscerali. Il nostro stile, poi, è risultato ancora più contaminato nel secondo album “Commerciale” uscito sei anni dopo. Siamo cresciuti insieme e ci siamo aiutati tanto. Ora non siamo più attivi come gruppo, ma le evoluzioni soliste di ognuno di noi rispecchiano quello che eravamo”.
Torino la chiamavate Black City, perché?
“L’abbiamo soprannominata così perché è un’idea che si può avere di Torino. La città della Fiat, delle fabbriche, col cielo grigio avvolto da una cappa lattiginosa. Poi ha una forte carica esoterica, da città maledetta, la città di Dario Argento, di “Profondo rosso”. È un concetto molto hip-hop: la tua zona, la tua yard, si sente e ti segue. Quel senso quasi calcistico di unione, come fossimo una squadra. “La city” ti è vicina, il senso di rappresentare la territorialità nel rap esiste come codice, ho sempre detto sono di Torino prima di dire mi chiamo Ensi”.
La trap sta scalzando il rap?
“Io credo che rap e trap non siano scindibili. Non puoi dividerli, è sbagliato. In America l’accezione trap non identifica un genere musicale. In Italia lo facciamo perché dobbiamo mettere un’etichetta, ognuno deve avere il suo ruolo: “Tu che blogger sei? Io sono un food blogger, io uno style blogger”. Io credo che ci sia una grossa nuova generazione che si è imposta bene, lavorando su quello che c’era prima. Imparano da noi e hanno un pubblico altamente preparato a quello che stanno facendo”.
Qual è allora lo stato di salute del rap?
“Buonissimo, sono molto fiducioso”.
Perché?
“Ieri il rap parlava solo a alcuni, oggi parla a tutti e, nel parlare a tutti, prende anche quelli che sono meno sensibili a determinati argomenti, per questo alcuni testi risultano meno profondi e ci può stare. Le nuove generazioni poi si mangiano tra di loro, a volte durano sei mesi perché è tutto velocissimo. Ma questo non fa che alimentare la fiamma attorno a tutto questo. Se in “Era tutto un sogno” dicevo che eravamo mosche bianche oggi, se passo fuori a una scuola, firmo gli autografi pure ai presidi. Tutti i ragazzi ascoltano il rap italiano, non posso che essere contento, è il genere che più ha rivoluzionato la musica italiana nell’ultima decade. Poi sulla forma, sul contenuto, possiamo discutere quanto vogliamo. Io prendo le distanze da un determinato filone che non è la trap, ma il rap che non dice nulla, ma quello c’è sempre stato. Oggi forse è un po’ più facile perché i ragazzi riescono a parlare alle persone senza essere per forza edificanti concettualmente o intellettualmente. Questo però riesce a creare delle differenze e a rendere il genere così vasto da farti trovare qualunque cosa tu stia cercando”.
Parliamo dell’ultimo tuo album “V”, il quinto, ci hai messo tre anni ma dentro c’è tanto di te. Come lo descriveresti?
“È il mio disco più personale. C’è tanto di me è il disco più maturo che ho fatto e onestamente credo sia anche il migliore. L’ho immaginato pensando di non scendere a nessun compromesso, è andato bene a livello di numeri considerato che sono stato lontano dalla scena per tre anni e il mercato è cambiato. Poi mi piace l’equilibrio tra forma e contenuto rimanendo sempre coerente alla mia idea di musica. Passerà meno tempo per fare il prossimo, ma credo che sarà difficile superarlo”.
Noyz Narcos in un’intervista a Noisey ha detto che “Enemy” potrebbe essere il suo ultimo album. Dice che non si vede con lo smoking come Jay-z, ma nemmeno col cappellino a 50 anni. Pensa sia meglio andarsene prima. Tu che ne pensi?
“Va detto però che Noyz è molto più vicino di me ai 40 anni. Poi spero, visto il rispetto artistico e l’amicizia che ci lega, che si rimangi la parola, non si offenderà. Però è una bella considerazione, ci penso anche io a volte e onestamente devo dirti che sono vicino al suo pensiero. Al di là di tutto se riuscissi a trasformare la mia passione in altro, in un ruolo meno da protagonista potrei pensarci anche io a chiudere prima di diventare troppo vecchio. Comincio a diventare grande, ad andare alle riunioni dell’asilo, ma se continuo continuerò a fare rap di contenuto”.
Clementino è uscito dalla dipendenza dalla cocaina e lo ha dichiarato apertamente, cosa ti senti di dire?
“Io e Clemente siamo come fratelli ed ero con lui quando ne ha parlato pubblicamente. Aveva bisogno di togliersi un peso, avrà pensato: “Lo dico davanti a tutti in modo da esorcizzare”, credo fosse anche autoterapeutica. È un bel segnale in un Paese dove ci si nasconde dietro i problemi. Lo show business ne è pieno e credo sia stata una decisione giusta e sofferta”.
Com’è il cielo su Torino?
“Prendo in prestito le parole di Guido Catalano, il cielo su Torino è un cielo che non si scherza un cazzo!”