“Quando parliamo di giornalismo investigativo e di fonti di energia fossile dobbiamo tenere in mente il volto umano di questa cosa. Si tratta del volto di una donna povera che non può fare altro che usare fonti di energia “sporca”, perché non ha scelta e non ha soldi. Dobbiamo fare questo discorso per evitare che l’industria dei combustibili fossili ci divida gli uni con gli altri”. Per Sunita Narain, ambientalista e direttrice del Centro per la Scienza e per l’Ambiente, non si può scindere il discorso sulla sostenibilità delle fonti energetiche dal tema della giustizia sociale. Al Festival del giornalismo di Perugia ha detto che bisogna sciogliere questa contraddizione, se non si vuole fare un discorso ipocrita sul cambiamento climatico.
La comunità scientifica alla Cop28 di Dubai è stata molto chiara: se non si smette subito di bruciare combustibili fossili, il riscaldamento globale peggiorerà. Il Global Investigative Journalism Network ha recentemente pubblicato The Investigative Agenda for Climate Change Journalism (L’agenda investigativa per il giornalismo sui cambiamenti climatici ), che raccoglie alcune raccomandazioni per i giornalisti e gli esperti di cambiamento climatico. Servono, secondo l’organizzazione, indagini serie sull’industria globale dei combustibili fossili, che resiste agli imperativi di sostenibilità richiesti da buona parte della società civile e dai movimenti ambientalisti. Ma, come suggerisce Narain, se si vuole sfuggire all’ipocrisia che vorrebbe mettere Sud globale e Nord globale sullo stesso piano, bisogna chiedersi: a chi servono veramente le fonti fossili? E perché?
La “femminilizzazione della poverà” è un fenomeno che riguarda l’iniquità delle società e il fatto che le donne partono sempre in ritardo sui blocchi di partenza: dall’economia al lavoro, alle discriminazioni sociali, sono uno tra i gruppi più vessati a livello transnazionale. Tra le fasce di popolazione più colpite dalla povertà a livello globale, le donne sono in prima linea. E non è un problema che riguarda unicamente i Paesi del cosiddetto Sud globale, perché anche in Europa – reduci dal Covid-19, con lo scoppio del conflitto in Ucraina e la crisi umanitaria a Gaza – le donne subiscono in modo sproporzionato gli effetti più gravi della crisi energetica.
“Affinché le donne e le minoranze di genere abbiano l’uguaglianza che meritano, la libertà dalla povertà energetica deve essere considerata un diritto umano”, dicono gli attivisti di Greenpeace. L’associazione ritiene che l’accesso all’energia pulita a prezzi accessibili debba essere garantito insieme ai diritti umani delle donne e delle minoranze di genere. “Ad esempio, l’Africa ha il diritto di utilizzare i combustibili fossili?”, si chiede Narain. “Dobbiamo essere in grado di capire chi ha bisogno dei combustibili fossili e chi no”.