Reggere una responsabilità non è mai semplice. E la responsabilità del farsi portavoce della salute mentale degli studenti universitari rende il compito ancora più arduo. Il discorso pronunciato da Emma Ruzzon, lunedì 13 febbraio, per l’inaugurazione dell’801° anno accademico dell’Università di Padova, ha centrato il bersaglio. È riuscita a fare emergere problemi che circondano il contesto universitario e che spesso non vengono considerati.
In questi giorni tanti ragazzi hanno condiviso il tuo video sui social e i media hanno parlato di te. Era già successo l’anno scorso con un altro discorso inaugurale, quello per gli 800 anni dell’ateneo di Padova. A 23 anni sei di nuovo al centro dell’attenzione: come gestisci questa situazione?
“Ho alle spalle un ‘paracadute’ e riesco a viverla bene. Il discorso non viene solo da me, ma da tutta l’Unione degli universitari, l’associazione di cui faccio parte: abbiamo deciso di parlare di questi temi e io ho fatto da megafono. I fatti recenti alla Iulm, ma anche altri episodi accaduti a Palermo e nel Padovano, hanno aiutato a sentire questo tema come pressante e la necessità di raccogliere quelle che abbiamo inteso come grida d’aiuto. A differenza dell’anno scorso stanno arrivando meno commenti negativi a livello personale. Il tema di quest’anno è più trasversale quindi mi fa molto piacere ricevere messaggi di studenti che apprezzano e dicono che avevano bisogno di sentire queste parole. Per questo lo sto vivendo bene, ne vale la pena”.
Le tue parole hanno lasciato il segno: “La Stampa” ha riportato un estratto del tuo discorso titolando “Il peso del merito”. Pensi che questo titolo sia corretto o lascia da parte alcuni argomenti di cui hai parlato?
“Il discorso parlava di tante cose. Si parlava di sentimenti, di merito, di diritto allo studio, dei pochi investimenti, di alcune politiche che il governo sta portando avanti. Essendo un titolo di un giornale per forza di cose nella sua brevità deve scegliere un argomento cardine di cui parlare e credo che il peso del merito sia stato abbastanza azzeccato per riassumere quanto meno la parte che tratta di quello”.
Hai sottolineato, nel tuo discorso, che il sistema delle aspettative rende meno sereno il percorso di studi di uno studente. Se questo sistema tu l’hai vissuto e affrontato, che consiglio daresti a chi lo sta vivendo in questo momento?
“Trovo che sia un problema endemico e mi è difficile immaginare qualcuno che viva serenamente il percorso universitario. Io l’ho vissuto e lo vivo ancora, ma quando ho dei pensieri intrusivi o penso che stia fallendo, per fortuna non ho nulla che mi crea pressione dal punto di vista delle amicizie e comunque poco dal punto di vista familiare. Dare un consiglio è difficile, sicuramente chiedere aiuto a figure specializzate quando c’è la possibilità. Mi rendo conto che un servizio di assistenza psicologica privato non sia alla portata di tutti e mi rendo anche conto che dentro le università sia totalmente assente o carente. Questa è una di quelle cose su cui abbiamo intenzione di lottare per fare in modo che a livello nazionale ci sia una linea politica che preveda di avere un servizio di assistenza psicologica garantito e funzionante. È importante dire che va bene fermarsi, non dare esami o saltare una sessione. Non casca il mondo. Non ci si deve sentire dei falliti e per questo pensare di stare sprecando un semestre o un anno della propria vita. Togliamoci questa cosa dalla testa perché è molto malsana”.
La tua risposta anticipa un po’ la mia prossima domanda. La situazione in cui tantissimi studenti si ritrovano è quella in cui sono sopraffatti da esami, famiglia, università, responsabilità, aspettative verso la società. A Padova è presente uno sportello di ascolto e dialogo?
“L’Università di Padova fortunatamente ha già uno sportello: il servizio di assistenza psicologica dell’ateneo. È un servizio che accoglie circa 1500 domande l’anno, il problema è che per quante ne accoglie, altrettante se non di più vengono rimandate. Siamo fortunati ad avere questo servizio, ma i tempi di attesa sono di tre o quattro mesi e molto spesso si ricade nel dover fare delle sedute di gruppo piuttosto che singole per risparmiare tempo, perché è un servizio sotto-finanziato. Siamo fortunati che dei fondi vengano comunque stanziati, ma c’è bisogno di una politica nazionale che non differenzi e tra atenei grandi e piccoli, o tra Nord e Sud. Ci vuole una politica più centralizzata su questo o sulle borse di studio. Si deve aiutare il singolo ateneo a rendere il percorso universitario vivibile per gli studenti”.
Perché secondo te il legame tra salute mentale e università è stato ignorato o sottovalutato?
“Credo sia un discorso che va fuori dall’università, non ho studiato psicologia, ma ho studiato la storia di come la salute mentale è stata vissuta nel nostro Paese. Sicuramente è sempre stato uno stigma che stiamo piano piano iniziando ad abbattere. È sempre stato difficile dichiarare di avere bisogno d’aiuto e bisogno di assistenza psicologica. L’assistenza psicologica non è mai stata considerata al pari della cura della salute fisica, sia in termini di sensibilità sociale, che di politica sanitaria. Le due cose sono andate a braccetto e ora stiamo iniziando a parlare di questo tema, di salute mentale davvero, ci stiamo rendendo conto di cosa vuol dire stare male da un punto di vista psicologico, e quanto sia debilitante”.
La disponibilità delle borse di studio aumenta la competizione e dunque il senso d’ansia?
“Secondo me la misura di supporto delle borse di studio tendenzialmente diminuisce l’ansia, ma per molti studenti il concetto di merito e di ansia che si porta dietro deriva anche dal fatto di partire da condizione di partenza diverse. Sentirsi in dovere di stare al passo con gli esami, con le medie, con la sessione, con tutto quello che ruota intorno, come trovare un alloggio a condizioni accettabili, o conciliare studio e lavoro. Tutto questo contribuisce a creare molta ansia, e le misure di diritto allo studio dovrebbero intervenire. Tuttavia le borse di studio o le misure di diritto allo studio molto spesso sono limitate in base al merito: rallentare, non dare un certo numero di esami all’anno significa perdere la borsa di studio e diventare fuori corso. Se hai una borsa e ti fermi perché stai male, devi recuperare tutto quello che non hai fatto prima per non perdere la borsa: si innesca un circolo vizioso senza fine.
Chiudo con un’iniziativa che si è svolta a Torino da cui è nata l’idea di contattarti. È stato presentato il Progetto Spes, realizzato in collaborazione con lo Spazio BAC, un progetto di formazione per gli insegnanti su temi riguardanti il suicidio giovanile attraverso il teatro. Questi progetti, che parlano di questo tema in maniera differente, secondo te raggiungono il loro fine?
“Io personalmente sono favorevole al teatro come strumento terapeutico, ma se il fine è risolvere il problema alla radice, no. Si tratta di un problema strutturale e profondo ed è, per quanto mi riguarda, anche un nodo politico di diritto allo studio e di visione del sistema universitario. Sicuramente una maggiore sensibilità del corpo docente nel realizzare che gli studenti sono studenti e non numeri è un tassello del puzzle. Che il corpo docente stesso si orienti per capire che il rapporto docente studente è un rapporto umano e di interscambio, e quindi anche di accettazione dei ‘fallimenti? degli studenti, è utile. Responsabilizzare l’individuo è fondamentale, ma ciò non deve togliere la responsabilità al problema complessivo, e quindi delle istituzioni università e scuola”.