Quando gli chiedevano che cosa avrebbe fatto se non fosse diventato attore, Eduardo De Filippo rispondeva prontamente: “Non ci posso neanche pensare, perché forse non sarei nato”.
Per lui, il teatro era energia, ribellione, ossigeno e continua ricerca del senso dell’esistenza. A distanza di 121 anni dalla sua nascita, avvenuta il 24 maggio del 1900 a Napoli, il contributo eduardiano permane nel mondo del teatro, come un sigillo eterno, intramontabile ed estremamente attuale. Seppure le sue commedie proiettino sulla scena un’epoca ormai trascorsa, dagli anni ’20 agli anni ’70, costituiscono una moderna riflessione sulla società, i rapporti interumani e familiari. Dietro la comicità e la risata, Eduardo nasconde profondi messaggi sul senso della vita.
Figlio del noto capocomico napoletano Eduardo Scarpetta, egli nasce sulle tavole del palcoscenico. Secondo alcune ricostruzioni, Eduardo va in scena per la prima volta piccolissimo, interpretando il Bambin Gesù per uno spettacolo del padre. Da quel momento, sala, sipario e quinte diventano parte integrante della sua vita.
Fu autore, attore e regista: tre figure teatrali rimaste, nella storia, sempre distinte, ma che trovano in Eduardo un’armonia. Egli scriveva le proprie commedie, studiava la scenografia, curava la regia e incarnava i suoi personaggi. Prima nella compagnia del fratellastro Vincenzo Scarpetta, poi in quella dei due fratelli Titina e Peppino De Filippo, e infine, dopo la lite con Peppino, quella creata con la sorella. Era un uomo di teatro a tutti gli effetti.
La sua produzione conta circa sessanta commedie e si sviluppa tra il 1920, con la prima messinscena Farmacia di turno, e il 1973, con l’ultima Gli esami non finiscono mai: un arco temporale molto vasto, del quale l’opera eduardiana si fa testimonianza diretta. La “sua” Napoli diventa metafora del mondo, strumento per evidenziare i problemi e le difficoltà nazionali e internazionali. Partendo dalla questione meridionale, Eduardo analizza ogni aspetto storico, sociale e intimo della società italiana nel corso degli anni: gli anni ’20, l’apogeo del fascismo, il periodo buio della seconda guerra mondiale, la disillusione del secondo dopoguerra, la speranza del boom industriale e la crisi degli anni ‘70.
“La produzione eduardiana si può riassumere in una specie di romanzo teatrale – spiega Anna Barsotti, docente di Storia del teatro e dello spettacolo all’Università di Pisa e autrice di svariati volumi su Eduardo De Filippo – caratterizzato da situazioni artistiche che tendono alla ricerca, da un lato, della molteplicità del reale e, dall’altro, del sogno. Le sue commedie contengono diversi aspetti, come tanti cassetti segreti: l’aspetto storico, puntualmente documentato, l’aspetto del reale e l’aspetto del fantastico, attraverso le illusioni e le utopie dei personaggi”.
Il teatro eduardiano proietta la realtà quotidiana sul palcoscenico, ricostruendo le vicende storiche e gli aspetti più profondi dell’animo umano. In lui, tradizione e innovazione si amalgamano e si fondono insieme.
“Eduardo costituisce un punto di partenza per comprendere lo ieri, l’oggi e il domani – continua Barsotti –. Il vero teatro, per lui, deve avere una dimensione di futuro, deve filtrare e anticipare la memoria collettiva. E questo avviene attraverso un rapporto continuo, un dialogo vivo con il pubblico”. L’autore-attore sfonda la quarta parete e si avvicina allo spettatore. Da osservatore passivo, il pubblico eduardiano diventa attore, “personaggio in più”, capace di entrare in sintonia con i protagonisti delle opere.
L’eredità del padre Scarpetta, inventore del teatro dialettale napoletano, lo porta a mantenere sempre un legame con la tradizione, in particolare la comicità, impronta distintiva del suo teatro. L’innovazione, però, non lo spaventa: anzi, lo stimola a sperimentare. “L’invenzione eduardiana riguarda la mescolanza di lingua italiana e dialetto napoletano – sottolinea Barsotti –, che si mescolano al di là della provenienza sociale dei personaggi. Con l’italiano Eduardo intendeva rivolgersi soprattutto allo spettatore, che poteva non essere napoletano e che doveva comprendere a pieno il suo messaggio”.
Il discorso di Eduardo si inserisce in un contesto storico complesso e difficile: egli attraversa tutto il periodo della seconda guerra mondiale. Assistere agli orrori del conflitto lo porta alla disillusione e alla riflessione sulle relazioni umane e sul modo di comunicare tra le persone. “La stima reciproca l’abbiamo uccisa”, reciterà nel 1948 nella commedia Le voci di dentro. E dirà anche: “Mo’ si sono imbrogliate le lingue”. Per lui, gli uomini non sono più in grado di comprendersi, perché la guerra ha portato via tutto. Con estrema sensibilità, Eduardo trasferisce sul palco la condizione di isolamento dell’uomo e la difficoltà di instaurare un dialogo con l’altro. Ispirandosi a Pirandello e rifacendosi al teatro dell’assurdo di Beckett, porta in scena quella che Anna Barsotti definisce “comunicazione difficile”. I protagonisti delle sue commedie non riescono a comunicare con gli altri: parlano, ma senza essere ascoltati, oppure si chiudono nel silenzio.
“Nonostante il pessimismo, espresso attraverso i monologhi e la rinuncia alla parola da parte dei personaggi, Eduardo conserva sempre un velo di speranza in un cambiamento e rinnovamento della società”, afferma Barsotti.
Dentro alla sua famosissima “Adda passa’ a nuttata”, frase pronunciata in Napoli Milionaria! (1945), vibra l’eco di una fiducia nel futuro: attendere che trascorra la “nuttata”, dopo la quale, forse, sarà tutto cambiato. Una frase di profonda speranza tremendamente attuale. E l’ennesima testimonianza dell’eternità del teatro eduardiano.