Il quesito sulla percentuale di omossessuali tra gli uomini inserito nei test di medicina all’Università di Torino ha scatenato reazioni differenti. La ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli ha parlato di una domanda di “una gravità inaudita”, il rettore Gianmaria Ajani ha ammesso come denoti “scarsa sensibilità”, mentre la presidente del corso di laurea in Medicina di Torino Roberta Siliquini ha affermato che si trattava di “una domanda di tipo statistico-demografico e non di fisio-patologia”.
Maya De Leo, docente del primo corso di storia dell’omosessualità in un ateneo italiano al via ad aprile proprio all’Università di Torino, fatica a capire quali fossero le intenzioni di chi ha concepito la domanda: “Nella migliore delle ipotesi è sicuramente posta male, estrapolata dal contesto e inadatta a un test a crocette. Suscita perplessità innanzitutto perché lascia fuori tutte le altre sessualità non eterosessuali, come ad esempio la bisessualità, e perché sembra presupporre un’invarianza nell’orientamento sessuale sia nella popolazione che nell’individuo”.
A preoccupare la professoressa è l’idea dell’orientamento sessuale come condizione fisiologica che possa essere misurata con dei parametri che si presuppongono oggettivi: “L’omosessualità è un concetto molto più complesso, dato da tanti fattori come l’influenza dei contesti, i rapporti con la comunità di riferimento e tutte quelle relazioni che vanno a definire l’identità di una persona”.
Tuttavia, Maya De Leo trova un lato positivo della vicenda: “È un bene che questa domanda abbia suscitato tutte queste reazioni. Può aprire un approfondimento su come viene trattato il tema dell’omosessualità in medicina. So dall’esperienza di molte persone LGBT che tanti medici sono drammaticamente impreparati”. E apre il suo corso anche agli studenti di medicina: “Se può servire per avviare un percorso di ripensamento sulla formazione del personale medico, perché no?!”.