Il 5 gennaio vengono comunicate le aree potenzialmente idonee alla costruzione del Deposito Nazionale di rifiuti radioattivi. Tra le 67 individuate, otto si trovano in Piemonte, due in provincia di Torino e le altre ad Alessandria. Sin dalla pubblicazione della lista, da tutta Italia è un susseguirsi di opposizioni: che il deposito sia essenziale nessuno lo nega, ma che venga costruito accanto casa propria è un’altra questione. Ma la stessa Sogin – la società incaricata della costruzione – incoraggia la partecipazione della cittadinanza al dibattito pubblico, invitandola ad informarsi per verificare che vi sia una corretta gestione del territorio. La scadenza per la presentazione di osservazioni alla proposta era inizialmente fissata ai primi di marzo. Tuttavia, la richiesta di una proroga di 60 giorni presentata dalla Città metropolitana di Torino, inizialmente respinta dalla Sogin, è stata approvata alle Camere. Così, in una pubblica adunanza virtuale, l’Accademia di agricoltura di Torino ha ospitato tre relatori per discutere dei siti piemontesi identificati come idonei. Si tratterebbe davvero della scelta migliore?
Il deposito nazionale, come ricordato in conferenza da Ettore Zuccaro, accademico corrispondente, è un’infrastruttura di superficie destinata allo stabilimento definitivo di rifiuti radioattivi a bassa e molto bassa intensità e di quelli ad alta intensità per un periodo di tempo limitato. Ad essere stoccati in 90 celle di calcestruzzo sarebbero circa 78 mila metri cubi di rifiuti a bassa intensità. Questi scarti, provenienti da attività industriali, ricerca, ambito medico e smantellamento degli impianti nucleari, rimarrebbero isolati per oltre 300 anni. La struttura occuperebbe in tutto 150 ettari: 110 e per il deposito e altri 40 per il parco tecnologico, un centro di ricerca energetico. Degli otto siti piemontesi segnalati, sette rientrano nella categoria A1, tra le aree che maggiormente soddisfano i requisiti necessari a ospitare il deposito. “I benefici che la Sogin indica per la struttura ospitante sono principalmente occupazionali, con la creazione di 4000 nuovi posti di lavoro, e finanziari. – continua Zuccaro – Un contributo di natura economica sarà erogato per il 10 percento alla provincia in cui verrà ubicato il sito, 55 percento al comune e 35 percento ai comuni limitrofi fino a 25 chilometri dal centro del deposito. Le attività e le imprese operanti entro 20 chilometri avranno invece una riduzione dei contributi sui rifiuti o su altre imposte.”
Ma sugli effetti che la presenza di scorie radioattive ha sull’ambiente circostante, non ci sono abbastanza controlli. Lo sostiene Paola Ferrazzi, docente di etomologia applicata e biomonitoraggio dei suoli e dell’acqua all’Università di Torino. “Sfruttando come indicatori alcuni organismi del suolo particolarmente recettivi, è stato rilevato che nei dintorni di Ispra – sede di depositi temporanei – l’ambiente registra bassi indici di qualità biologica in relazione al tipo di territorio e non spiegabili se non per la presenza di scorie nucleari. Sarebbe opportuno verificare la qualità biologica dei siti sia prima che dopo la costruzione degli impianti, per monitorarne la condizione.”
La scelta del sito è una questione che si protrae ormai da decenni. Già nel 2003 il governo aveva proposto la realizzazione di un deposito in profondità a Scanzano Jonico, in una zona ritenuta idonea per l’assenza di infiltrazioni d’acqua, ma altamente soggetta ad attività sismiche. Allora la popolazione della Basilicata era insorta e in meno di una settimana il decreto legge era stato ritirato. Per Luciano Masciocco, professore di geologia e rischio ambientale, nemmeno i siti piemontesi indicati come idonei sarebbero così sicuri: “I 7 siti ritenuti eccezionali, sono stati inseriti nella classe A1 solo perché rispondenti ad almeno tre dei quattro seguenti requisiti: distanza da linee ferroviarie, limitata presenza di edifici residenziali, di superfici di pregio a valenza agraria e di valenze naturali. Non vengono quindi tenuti in considerazione i valori geologici, che dovrebbero essere i più rilevanti. La carta di soggiacenza del Piemonte, ad esempio, mostra che in molte delle aree tenute in considerazione – come Carmagnola o Mazzè – l’acqua si trova ad una profondità inferiore ai 5 metri. Dato che il terreno non è perfettamente impermeabile, una perdita di scorie potrebbe superare la falda superficiale e inquinare quella profonda, che da alcuni punti raggiunge il mare Adriatico.”
C’è poi chi si appella al fatto che le zone scelte siano altamente popolate, in contrasto con i criteri che la Sogin stessa ha stabilito. Altri evidenziano la rilevanza delle produzioni agricole del territorio o di allevamenti esclusivi, come quello della razza bovina piemontese; altri ancora propongono piuttosto l’utilizzo di impianti industriali dismessi per non compromettere la composizione naturale del territorio. Ma la volontà comune è probabilmente riassumibile nelle parole di Vincenzo Gerbi, docente di enologia: “Non è possibile dire che in Italia non verrà fatto un deposito di questo genere, ma le misure di compensazione non valgono probabilmente la pena. In Piemonte sono già presenti sei centri di stoccaggio temporaneo, che detengono l’84% di combustibile nucleare irraggiato a livello nazionale. Meriteremmo, dopo tanti anni di deposito transitorio, di essere liberati, decontaminati e di ritornare a una situazione di normalità.”