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Daniele Segre, un esempio di libertà e indipendenza

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“Un regista, produttore e uomo di cinema e società come pochi altri”, così Paolo Manera, direttore della Film Commission Torino Piemonte, descrive Daniele Segre, regista piemontese venuto a mancare nella giornata di domenica 4 febbraio. Nato ad Alessandria nel 1952, Segre è conosciuto come un importante regista del reale e del sociale degli ultimi decenni del ‘900 e i primi degli anni 2000.

Come ricorda Daniele Segre?

“Mi fa piacere ricordarlo con tutta la stima e l’affetto possibile, come un regista, produttore e uomo di cinema e società come pochi altri”.

Quale è stata la sua importanza per il cinema torinese e per la stessa città?

“L’importanza di Daniele Segre per Torino e il cinema è incalcolabile. Con il lavoro che ha fatto e con i documentari per la Rai a partire da fine anni ’70, primi anni ’80. Una serie di lavori che hanno raccontato le trasformazioni della città e della società con una capacità di andare e incontrare mondi che non erano conosciuti, non erano raccontati. E lo ha fatto con una visione di grandissimo rigore: cinematografico, sociale, sociologico. Dopo essere stato veramente un apripista, una personalità fondamentale in quegli anni è stato anche un insegnante straordinario: sono molte le persone grazie a lui hanno iniziato a fare cinema del reale e quindi non solo lui ha dato un esempio, ma anche fornito degli strumenti e una capacità di crescere e fare cinema come pochi altri. E questo gli è stato riconosciuto a livello locale, ma anche nazionale e internazionale”.

E qual è quindi l’importanza che ha avuto per il cinema in generale?

“È uno delle guide di come si fa un certo cinema, un esempio di libertà e di indipendenza produttiva e distributiva. Non soltanto è sempre stata unica la sua radicalità nel scegliere argomenti e storie evitate e anche nascoste, ma anche la sua capacità di essere autore, produttore e anche colui che crea una circolazione di opere con una serie infinita di proiezioni nel territorio, nei cinema, nelle scuole, nelle biblioteche e nelle associazioni. Questa gli va riconosciuta come un’esperienza che ha fatto da modello e anche da incoraggiamento per tante persone. Quella che un tempo era un po’ un’esperienza in solitaria è poi diventata un modello.
E poi ha avuto anche la capacità di fare passaggio di consegne fra generazioni, che credo sia una delle cose più importanti per il cinema, per la società e per tutto quello che riguarda la nostra vita. L’ha fatto sia con I Cammelli ma anche con il coinvolgimento costante nei suoi progetti di persone più giovani, per dare delle opportunità di imparare direttamente, sul campo. Io l’ho conosciuto e ho collaborato con lui nel 2007, da quel “Morire di lavoro“, uno dei suoi film più visti, con cui si occupava con grandissimo coraggio e intensità degli incidenti sui cantieri, nelle fabbriche, nel mondo del lavoro. Un film che ha girato tantissimo e ha contribuito molto al dibattito, su una questione che all’epoca non era conosciuta, raccontata o affrontata”.