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Dai capelli di Justin Bieber alla blackface: gli stereotipi culturali sono un problema serio

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Justin Bieber è una star del pop globale, capace di riempire stadi, fare incetta di dischi di platino e di veicolare mode e trend. La sua nuova acconciatura di capelli dreadlock, però, ha fatto discutere. La scorsa settimana è stato il quotidiano inglese The Guardian a riportare, e sostenere, le polemiche nei confronti del cantante canadese. “Why Justin Bieber should not have this hairstyle” (tradotto: “Perchè Justin Bieber non dovrebbe portare questo taglio di capelli”) era il titolo del post Instagram, in cui l’editorialista di bellezza nera e hairstyle del quotidiano, Irene Shelley, criticava la scelta della pop star di portare un’acconciatura per cui molte persone nere sono tutt’ora discriminate. Una polemica legata alla cosiddetta cultural appropriation (appropriazione culturale) che potrebbe facilmente essere osteggiata dalla comunità bianca, Tuttavia, ci sono molte buone ragioni per accoglierla, anche da parte degli italiani.

“Quando ho visto la foto di Bieber anche io sono rimasta perplessa. Nel contesto americano la popolazione nera subisce ogni giorno discriminazioni per la sua acconciatura di capelli, soprattutto sul luogo di lavoro, perché considerata poco professionale o riconducibile ad atteggiamenti criminali” ha raccontato Benedicta Djumpah, attivista italiana di origine ghanese per i diritti razziali. “Ricordo addirittura un video di un atleta afroamericano costretto a tagliarsi i capelli (con acconciatura dreadlock, ndr) prima di una gara di lotta greco-romana. Un atto di pura violenza” ha aggiunto. “La cosa assurda è che se una persona nera porta le acconciature che fanno parte della propria cultura sono discriminate. Se invece è una star come Justin Bieber a portare i capelli in questo modo, allora è considerato cool” ha sottolineato. Un problema americano, ma non solo. “In Italia questa discriminazione culturale è più velata. Ma io stessa ho vissuto episodi di questo genere. A scuola, quando i professori mi facevano capire che portare i capelli ricci non era appropriato. O quando al lavoro, il mio titolare mi fece capire che non potevo portare le treccine perché poco decorose” ha raccontato. “Anche se una star italiana decidesse di portare un’acconciatura afro la comunità afro-discendente solleverebbe il problema, e vorrebbe soprattutto vedere il personaggio mediatico riconoscere la storia e la cultura che vi è dietro”.

Un discorso simile potrebbe essere fatto per la blackface, la pratica teatrale che consiste nel pitturarsi la faccia di nero per “travestirsi” da persona africana o afro-discendente (vista recentemente sulla Rai nel programma Tale e quale Show e riconducibile a una storia profondamente razzista). “È una pratica denigratoria. Mi chiedo poi come la comunità afro-discendente possa tollerare una cosa del genere in televisione, quando tutti i giorni subisce pratiche discriminatorie nei luoghi e nei contesti più disparati. Dire poi che queste, come altre, sono pratiche solamente americane, è assurdo. Ho visto scene dei film di Totò e vecchie pubblicità del Cicciobello che fanno capire come anche in Italia ci sia questo retaggio” ha sottolineato Benedicta Djumpah.

In Italia, spesso ci si difende dagli episodi razzisti sottolineando come l’intenzione (non razzista) possa giustificare pratiche come la blackface e uso di espressioni come la “N-word”. “Quella parola è inascoltabile e inaccettabile. Lo è per i semplice fatto che fa riaffiorare nelle persone nere degli episodi che non sono mai piacevoli. Insulti, discriminazioni e tanta sofferenza propria, dei familiari e del prossimo. Non importa l’intenzione, perché il risultato è comunque doloroso. Come se passeggiando facessi cadere il tè bollente addosso ad una persona: non era mia intenzione farle male, ma il risultato è quello. Basterebbe semplicemente fare attenzione a non usarla e capire perché non farlo” ha sottolineato. “Come fa una persona nera a ridere della N-word, quando magari è stata usata per insultare la propria madre o il proprio fratello?”.

“Ci sono molti stereotipi culturali verso le persone nere. È come se dovessimo sforzaci il doppio per far valere le nostre idee e raggiungere certi obiettivi lavorativi. Veniamo sempre indirizzati verso lavori manuali, sin da piccoli. Le donne poi vengono prese sempre per prostitute, a tutte le ore del giorno. Tanti episodi che portano avanti una visione distorta della comunità nera e afro-discendente” ha sottolineato. Nel quotidiano, però, le persone bianche possono fare piccoli azioni, per essere davvero dalla parte delle persone nere. “La prima cosa da fare è ascoltare. Farlo senza interrompere, senza sminuire le emozioni e i problemi delle persone nere. Dopodiché bisogna smettere di essere omertosi. Davanti a episodi di razzismo non bisogna tacere. A volte io stessa sono stata in silenzio, ma anche non dire niente è una violenza. Bisogna riconoscere che il problema c’è”, ha concluso Benedicta Djumpah.