Da Costa a Costa è il titolo suo podcast, da Trump a Biden, invece, è il nuovo destino degli Stati Uniti. Francesco Costa, giornalista, vicedirettore del Post, esperto di politica americana e autore dei saggi Questa è l’America (2019) e Una storia americana (2020), entrambi pubblicati da Mondadori, è uno dei maggiori divulgatori in Italia della politica e della way of life in USA. Costa racconta e commenta cosa accade al di là dell’Atlantico anche attraverso le risposte a FuturaNews.
Le azioni di Trump, sin dal principio delle ultime elezioni, sono effettivamente frutto di una strategia ben precisa (magari volta proprio a un “golpe” come quello acceduto al Campidoglio) o sono semplicemente guidate dalla disperazione per la sua sconfitta?
Io credo che sia una via di mezzo, Trump non è un personaggio capace di fare grandi pianificazioni e lo abbiamo visto più volte nel corso del suo mandato. Lui in realtà si fa guidare soprattutto dal suo istinto e secondo me questa è stata la storia di questi quattro anni.
E credo che valga anche per il caso dell’attacco al Campidoglio, un po’ come in generale in tutta la sua campagna di delegittimazione del voto. Basta ricordare la conferenza stampa di Rudy Giuliani davanti al negozio di giardinaggio e altri episodi simili che lasciano pensare che non ci fosse una grande pianificazione ma ci fosse solo il desiderio di fare qualsiasi cosa possibile, persino in via illecita, per ribaltare il risultato del voto.
Quest’ultimo terrificante evento può rappresentare il picco del trumpismo in vista di una sua parabola discendente o è un nuovo inizio che può dare linfa vitale al movimento?
Questa è la domanda aperta. Non sappiamo se gli eventi del 6 gennaio rappresentano la fine o l’inizio di qualcosa di più grande. Bisogna però ricordare che quello che oggi, per comodità, possiamo chiamare “trumpismo” non è cominciato con Trump. Anzi, Trump ha raccolto i frutti di quella che è una radicalizzazione che negli Stati Uniti, e nel partito Repubblicano in particolare, andava avanti da molto tempo. Per cui potremmo anche vedere la carriera politica di Trump finire in maniera disastrosa, magari anche con un impeachment, ma non per questo vedere il suo modo di fare politica abbandonato dai Repubblicani. Bisognerà quindi vedere se le sorti dell’estremismo repubblicano saranno diverse da quelle personali del Presidente Trump, perché secondo me le due cose non sono necessariamente così collegate tra loro.
Come vede il futuro politico di Trump in vista di un’eventuale ricandidatura nel 2024? Sarà effettivamente “scaricato” dal partito Repubblicano come sembra stia accedendo in questi giorni?
Questo lo scopriremo a breve e soprattutto perché si vedrà come finirà la procedura di impeachment che i democratici hanno portare alla Camera, e bisognerà vedere che sostegno arriverà da parte dei repubblicani. E qualora dovesse concludersi la rimozione di Trump dalla Casa Bianca, anche dopo la fine del suo mandato, questo andrebbe automaticamente a impedire una ricandidatura nel 2024. Ma anche se non dovesse andare così, il futuro politico di Trump è a rischio non solo per quello che è accaduto il 6 gennaio, ma anche perché sappiamo che Trump ha lasciato la presidenza con innumerevoli cause giudiziari a suo carico, che riprenderanno una volta che è venuta meno l’immunità presidenziale. E anche per i suoi problemi economici e finanziari, dato che Trump ha debiti molto ingenti e i suoi business sul piano economico non rendono molto. Quindi potrebbe anche decidere di riprendere la sua attività nei programmi televisivi. Ma vedremo strada facendo quale saranno le sue decisioni per il futuro e se nel 2024 ci saranno le condizioni plausibili per una sua ricandidatura.
Nessun terzo polo all’orizzonte, quindi?
Non credo che quella del terzo polo sia un’ipotesi realistica: il sistema politico americano, per come è strutturato, favorisce e incentiva la formazione di due blocchi contrapposti; di conseguenza, per chi vuole arrivare al potere – come ci ha dimostrato, tra l’altro, la scelta che Trump ha fatto quattro anni fa – è decisamente più semplice cercare di ottenere il controllo di uno dei due partiti, anziché fondarne uno ex novo nella prospettiva di “smontare” il bipolarismo americano. Più in generale, se un candidato ha abbastanza sostegno nella base di un partito, può acquisirne il controllo anche senza il consenso dell’establishment. Piuttosto, sarà importante capire se gli elettori repubblicani continueranno a chiedere una linea come quella di Trump o se, al contrario, si renderanno conto che quest’ultima non ha prodotto grandi risultati, dato che in questi quattro anni hanno perso il controllo della Camera, del Senato e della Casa Bianca. La variabile potrebbe essere l’atteggiamento che i parlamentari e i dirigenti repubblicani metteranno in campo nei prossimi mesi: se cominceranno a promuovere una retorica diversa, meno aggressiva e “di pancia”, alcuni elettori potrebbero virare in direzione di un cambio di rotta. Tuttavia, sarà un processo doloroso: la base odierna del Partito, la stessa che ha reso possibile la genesi e il successivo consolidamento del trumpismo, è la stessa che i repubblicani hanno coccolato a lungo negli ultimi mesi.
Ci racconta qualche retroscena del suo ultimo libro?
Si chiama Una storia americana, è uscito il 19 gennaio per Mondadori. Ho provato a raccontare chi sono Joe Biden e Kamala Harris attraverso alcuni episodi e momenti che hanno scandito le loro vite e, in parallelo, porto avanti l’ideale che ha ispirato il primo libro: raccontare l’essenza dell’America.