Dal 2011 al 2021, in Italia i volontari sono diminuiti del 5,8%. Se il 43,8% delle associazioni ha perso volontari, l’11,5% ha numeri stabili e il 34,8% ha visto crescere le persone che partecipano a titolo gratuito alle attività associative. Esiste inoltre un’apparente inconciliabilità tra vita associativa e reddito basso: meno del 10% della classe lavoratrice non qualificata e tra i disoccupati partecipa ad attività del terzo settore. Sono questi i dati forniti dal X rapporto sull’Associazionismo Sociale “La prospettiva civica: l’Italia vista da chi si mette insieme per cambiarla“, curato dall’Istituto di Ricerche Educative e Formative (Iref).
I settori più colpiti dal calo sono quelli di cultura, sport e ricreazione, il settore sanitario e quello della cooperazione internazionale, in cui le associazioni che hanno visto calare i propri volontari sono superiori al 50%. La cooperazione internazionale, che comprende realtà come Emergency, risulta quello in maggior sofferenza: il 60% delle associazioni ha perso volontari e solo il 27% ha avuto un aumento. Negli altri settori, a fronte di una perdita generalizzata di volontari, oltre il 30% delle associazioni ha visto invece un aumento.
Se i volontari sono diminuiti, il settore rimane in crescita: i dipendenti sono cresciuti del 32,8% e il numero di associazioni del 13,7%. Il numero di dipendenti in aumento mostra una professionalizzazione del settore.
La crisi del terzo settore è in realtà uno scenario in cui le associazioni si adattano, si trasformano, crescono, si professionalizzano con lo scopo comune di fornire servizi, attraversando difficoltà di natura eterogenea. La burocratizzazione ostacola l’attività degli enti e c’è una scarsa tendenza al networking: il 44% non ha relazioni con altre associazioni, principalmente tra le realtà del Sud Italia. Si tratta a volte di associazioni “che curano un evento, salvaguardano un parco, tramandano una memoria e che non hanno bisogno di collaborare” ha chiarito Gianfranco Zucca, direttore e ricercatore dell’Iref. In molti casi, però, è una situazione che nasce dall’alta competitività causata dalla corsa ai bandi e da una generale ritrosia alla collaborazione.
I giovani si impegnano meno
Demograficamente emergono dati interessanti. In Italia pochi giovani praticano attività associative: il 16% dei ragazzi tra 15 e 29 anni rispetto a una media europea del 20,8%. Anche le classi medie e popolari sono assenti. Sembra esistere un’inconciliabilità tra lo stile di vita dei lavoratori a bassa qualificazione e dei disoccupati e la vita associativa: un’indagine condotta tra oltre 700 attivisti a Roma, Firenze, Napoli e Milano mostra che gli appartenenti a questa categoria sono tra il 4,4% a Firenze e il 12,7% a Milano. “I ceti popolari fanno fatica a partecipare alle attività delle associazioni, ed è un tema importante di cui discutere “, ha aggiunto Paolo Petracca, presidente dell’Iref. “Sono spesso i destinatari delle azioni associative e farli diventate protagonisti sarebbe un grande obiettivo”. I dati partecipativi aumentano con il miglioramento delle condizioni di vita: i “nuovi ceti medi”, composti da persone con alta istruzione ma con reddito non troppo alto, costituiscono oltre il 50% delle risorse umane del terzo settore.
“Dobbiamo rimetterci in ascolto”, ha spiegato Petracca. “Dobbiamo guardare alle questioni legislative ed economiche, ma anche riflettere sul perché noi continuiamo a metterci al servizio delle comunità. Capire a fondo le esigenze e comprendere come e perché alcune forme di impegno diventano stabili per affrontare le sfide che ci aspettano”.