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Cpr, Torino ha una ricetta per limitare le detenzioni

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“Se fosse per noi, non si parlerebbe di una riapertura del centro in corso Brunelleschi”. L’assessore comunale ai Servizi sociali Jacopo Rosatelli chiarisce con una battuta la posizione dell’amministrazione torinese sulla questione Cpr. Lo fa a margine di un incontro dedicato proprio alle misure alternative alla detenzione. Il governo e la Città mantengono posizioni opposte.  Il primo vorrebbe un Cpr in ogni regione e Piantedosi aveva annunciato: “La struttura di corso Brunelleschi verrà riaperta”. Immediata era stata la risposta del sindaco Lo Russo: “Non consideriamo i Cpr una soluzione al problema”. Piuttosto, i centri di permanenza per il rimpatrio vengono percepiti come l’emblema del fallimento di un intero sistema. 

Ma a decidere sulla apertura (e sulla riapertura) dei Cpr è il governo. E così la Città di Torino pensa a quali modalità adottare per evitare che vengano ricommessi gli errori del passato. “Non ignoriamo l’importanza di forme di controllo sull’immigrazione irregolare – dice Rosatelli -. Ma possono esistere forme più efficaci, meno costose e più rispettose di diritti”. Soluzioni presentate alla prefettura e che aspettano di essere prese in visione da Roma. Si tratta di un programma di interventi volti a rendere attive un serie di direttive già previste dalla normativa europea, ma che spesso non vengono applicate. Strategie che permetterebbero di superare il modello detentivo, a favore di una regolarizzazione dei soggiorni o del rimpatrio volontario.

“Tutto ciò può avvenire in diversi casi – spiega Laura Martinelli, avvocata Asgi, Associazione studi giuridici sull’immigrazione -. In primis nella fase preliminare, al momento dell’identificazione. Qui si dovrebbe avviare una valutazione delle vulnerabilità per capire se c’è una possibilità di regolarizzazione. In molti casi ciò non viene fatto, quando invece molte delle persone rimandate ai Cpr avrebbero la possibilità di seguire percorsi differenti”. Le misure alternative al trattenimento sono determinate da alcune condizioni, come il possesso del passaporto o della documentazione atta a dimostrare la disponibilità di un alloggio. 

“Se l’interesse di tutti fosse quello di evitare la detenzione, potremmo essere noi a fornire il domicilio per il tempo necessario”, conclude Martinelli. “Si parlerebbe di strutture comunali, case di accoglienza del terzo settore, alloggi privati” segue Rosatelli. Da valutare poi i casi in cui i detenuti passano dal carcere al Cpr. Negli anni di reclusione possono aver seguito percorsi di studio o di formazione lavorativa, che saltano nel momento in cui varcano i cancelli del centri per il rimpatrio. Quello di Torino, è stato uno dei primi Cpr in Italia, nato nel 1998. Venticinque anni nei quali le modifiche normative sono state 17: una logica che ha sempre vacillato, a svantaggio delle persone trattenute.

I dati forniti da Monica Cristina Gallo, Garante dei detenuti di Torino, raccontano la totale inefficacia dello strumento e fotografano situazioni contraddistinte da disumanità. “Nel 2021 sono stati contati 120 tentativi suicidio, lo scorso anno sono stati 140 gli interventi del 118 – spiega -. Dal 1 gennaio 2012 ad oggi i trattenuti sono stati 4.456, e rimpatriati meno del 50%. Nel 2022, a Torino, i transitati sono stati 879, i rimpatriati 259: 1 su 4”.  E poi ci sono i costi. “Il 3 febbraio del 2023 il decreto del ministero degli Interni ha aumentato la cifra utile per trasferimento dei migranti nei paese di origine, portandola da 1600 a 2365 euro. Ogni rimpatrio costa al nostro paese 2635 euro. Pensate se questo investimento venisse fatto per la sanità…”.  Si lavora quindi per soluzioni altre rispetto alla detenzione dei Cpr, modalità capaci di andare incontro alle fragilità perché, come ha sottolineato Rosatelli, quello che accade al di fuori è figlio di effetti che quelle strutture provocano alle persone.  

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