Covid in Africa: la situazione in Sud Sudan

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La guerra civile è durata sei anni. È stata dolorosa e sanguinosa. Ha provocato decine di migliaia di morti e quattro milioni di sfollati. Poi ci sono state la carestia e le alluvioni che hanno fatto sprofondare il paese in una gravissima crisi umanitaria. A febbraio di quest’anno, finalmente, la pace. Debole, fragile e posticcia, ma pace.
Per questo, quando a metà marzo il coronavirus ha colpito anche il continente africano, il Sud Sudan è stato uno degli stati sorvegliati speciali. L’Africa Center for Strategic Studies, istituto di ricerca del Pentagono, ha mappato il continente per individuare i paesi più vulnerabili davanti alla pandemia. I fattori di rischio calcolati sono stati: sistema sanitario, conflitti, sfollati, densità urbana, popolazione urbana, esposizione internazionale, età media della popolazione, trasparenza del governo e libertà di stampa. Sud Sudan, Repubblica democratica del Congo, Sudan e Nigeria i paesi in cima alla graduatoria del rischio.

Matteo Perotti vive a Wau, in Sud Sudan, dal 2011 quando ha lasciato per sempre la sua casa a Como e la cattedra di ingegneria meccanica al Politecnico di Milano. Ora, insegna matematica all’università di Wau e si occupa del funzionamento e della manutenzione di tutta la tecnologia biomedica dell’ospedale.

Professor Perotti, qual è la situazione del Sud Sudan rispetto all’emergenza coronavirus?

I casi stanno aumentando, ma sono ancora pochissimi. Dicono tra i 100 e i 120 positivi.
I test, però, vengono fatti solo alle persone che si muovono da una regione all’altra. Ogni giorno vengono testate circa 200 persone e di queste circa il 10% risulta positivo. Per il momento, però, sembrano tutti asintomatici. Un po’ di tempo fa avevano parlato di tre persone in trattamento, ma poi non si è saputo più niente. Si trattava comunque di trattamenti a bassa intensità, anche perché qui non c’è niente per fare trattamenti seri. Ci sono due o tre macchine per la ventilazione in tutto il paese.

La gente del luogo cosa ne pensa?

Purtroppo, non sembrano preoccupati. Tutti parlano di questo “corona”, ma ne sanno poco. Credono che il mezzo di trasmissione principale siano le mani e le cose che toccano, non hanno capito che il problema vero è il respiro. Si lavano le mani ma poi mangiano dallo stesso piatto e bevono dallo stesso bicchiere.
In città, fuori dagli ambienti chiusi hanno messo bacinelle con acqua e sapone e qualcuno gira con delle fantasiose mascherine, ma appena fa caldo tendono a toglierle. In ospedale le mettiamo, anche perché qui a Wau non possiamo fare i tamponi quindi non sappiamo chi ce l’ha e chi no. Nei villaggi, invece, non sanno nemmeno che esiste.

 

 

 

 

 

 

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Che indicazioni ha dato il governo?

Intorno al 20 marzo erano state chiuse le scuole e l’università. Poi sono state date disposizioni sui mototaxi (il mezzo di trasporto più comune) impedendone la circolazione perché cliente e autista stavano troppo vicini. Ma sono norme che sono state disattese presto. La gente vive solo di quello. Se li tieni fermi, non sanno come mangiare.
È stato chiuso anche l’aeroporto internazionale di Juba e sono state interrotte tutte le comunicazioni tra una regione e l’altra. Anche le frontiere sono bloccate, ma sono molto permeabili, la gente riesce ad attraversarle senza nessun controllo così come riesce a uscire da Juba, la capitale, dove ci sono stati i primi focolai. In teoria le cose sono state fatte benino, ma c’è una corruzione bestiale.

Come ha reagito la gente?

In tanti dicono: “tra la morte certa per fame (se mi chiudono in casa) e la morte possibile di coronavirus, scelgo la seconda”. Qui nessuno ha protezioni sociali, non esistono. Tutti vivono di quello che raccolgono ogni giorno, se si fermano non mangiano.

E l’economia del paese?

L’economia, che era già in crisi, ora si è contratta ulteriormente. Tanta gente non sa più come arrivare a fine giornata. In più il prezzo del petrolio, che è la fonte di ricchezza principale per il paese, è andato praticamente a zero. Il Sud Sudan, infatti, deve anche lasciare una quota alla compagnia petrolifera che ha la licenza e una quota al Sudan per l’affitto della pipeline che trasposta il petrolio dai pozzi fino al porto, che è in Sudan. Togli questo, togli quell’altro e non rimane praticamente più niente. Hanno già calcolato che nei prossimi tre mesi non entrerà più niente nelle casse dello stato, è drammatico. Il petrolio rappresentava il 98 % degli ingressi di moneta forte e lo stesso budget statale è calcolato per il 90 % basandosi su quelle entrate. Il bilancio statale, per la verità, era già microscopico, ma se quelle entrate vengono a mancare non rimane proprio niente. Erano già cinque mesi che non pagavano tutti i dipendenti pubblici, chissà quanto andranno avanti senza guadagnare niente.

Ci sono state proteste?

Qui non ce ne sono molte. L’unica volta che c’è stata una protesta, l’hanno silenziata nel sangue, sparando. Non c’è nessuna reazione da parte del popolo.
I più pericolosi sono i soldati, perché con il mitra in mano iniziano a diventare ladri e ad assaltare le case. Per ora, per fortuna, ancora no, perché almeno nelle caserme dovrebbero avere da mangiare. In qualche modo li tengono a bada per ora.
La vera crisi, comunque, è prevista per luglio. Non ci sarà niente da mangiare, perché sta iniziando la stagione delle piogge. Poi, più avanti, nei villaggi dovrebbero iniziare a raccogliere qualcosa e stare un po’ meglio. Ma nelle città è diverso.

Come è stata gestita la situazione nei campi profughi?

Qui a Wau c’erano tre campi. Per evitare assembramenti la chiesa ha deciso di smantellarli. Io ho seguito lo smantellamento del più grande dove c’erano già meno sfollati di prima, ma 5mila/6mila (nel periodo più critico della guerra erano quasi 18000). La gente ha protestato ma ha accettato la decisione. Qualcuno aveva un posto dove andare, qualcuno ha trovato sistemazioni di fortuna.
Quando li ho visti partire con quattro sacchetti in testa mi sono un po’ preoccupato, ma il padre che gestiva il campo ha detto che avrebbero trovato un posto dove stare e qualcosa da mangiare.

 

 

Gli ospedali sono in grado di affrontare un’eventuale emergenza?

No, gli ospedali non riescono a fare niente. Se peggiora, peggiora. A meno che si scopra che qualche preparato per la malaria funziona, allora potremmo salvarci in corner, altrimenti non sappiamo da che parte girarci. Non ci sono terapie intensive. Possiamo dare un po’ di ossigeno ma in piccole quantità. Le nostre macchine danno 5/6 litri. Leggevo che chi ha bisogno di ossigeno necessita di 30 litri.
Limitare i contagi poi sarebbe impossibile. Chi sta fuori dalle città forse, perché vivono molto all’aria aperta, sparsi. In città invece è praticamente impossibile. Lì il problema potrebbe essere veramente grosso.

MARTINA STEFANONI