Quasi mille morti senza nome. Viaggiavano su un barcone che naufragò al largo della costa libica, stipati come bestie: 5 persone ogni metro quadrato. Era il 18 aprile 2015 e questa tragedia marittima, una delle più gravi dall’inizio del XXI secolo, sei anni dopo non è ancora risolta. L’imbarcazione, un peschereccio di nazionalità eritrea, rimase per un anno sott’acqua. Poi lo Stato italiano avviò le complesse operazioni di recupero, delegando l’Ufficio del commissario straordinario del Governo per le persone scomparse a organizzare le attività. Ma per dare un’identità ai morti sembrava troppo tardi.
“I loro resti sottoposti alle correnti, si sono deteriorati e mescolati. Il mio lavoro, ora, è dividerli per poterli studiare”. Chi parla è Andrea Palamenghi, un giovane ricercatore torinese approdato al Labanof, il laboratorio di antropologia e odontologia forense dell’Università di Milano, attualmente diretto dalla professoressa Cristina Cattaneo. Una laurea in scienze naturali conseguita a Torino, un’altra in biotecnologie mediche, un master in Scozia, nel mezzo il volontariato in due campi profughi in Grecia. Ora, grazie al Dottorato vinto a Milano e alla borsa di studio finanziata dalla Onlus torinese Cecilia Gilardi, Andrea può unire le sue competenze antropologiche all’interesse verso questioni umanitarie di cui non si parla mai abbastanza.
“Le vittime di naufragi come questo sono totalmente sconosciute, non abbiamo a disposizione una lista dei passeggeri da spuntare. Disponiamo dei loro scheletri, commisti, e di alcuni effetti personali. Agende, diari, telefoni cellulari, rosari, unici materiali salvati dal mare”. Seguendo questi due filoni, da una parte l’analisi antropologica dei resti, dall’altra l’indagine approfondita sugli oggetti, Palamenghi e i suoi colleghi provano a restituire un’identità ai morti.
Si tratta di un’operazione di proporzione enormi, considerando che il numero delle vittime senza nome si aggira tra le 700 e le 900. Ci vorranno anni per completare le analisi, nelle quali sono coinvolti dieci atenei italiani, capofila l’Università degli Studi di Milano, con il Labanof, punta di diamante dell’antropologia forense nel nostro paese. Tutte le attività ancora in corso sono guidate e coordinate dal Commissario straordinario per le persone scomparse. Il problema, però, è la scarsità di fondi per la ricerca: in anni in cui le tragedie dei migranti in mare (e non solo) sono purtroppo all’ordine del giorno, non esiste ancora un organismo governativo nazionale o sovranazionale, con fondi fissi, in grado di sovvenzionare progetti come questo.
“Abbiamo una responsabilità morale nei confronti delle vittime e dei loro parenti, che vivono una condizione in bilico tra incertezza e speranza. Psicologicamente questa cosa può avere conseguenze devastanti”, riflette Andrea. “Ma ciò che sento davvero forte è la necessità di tutelare i sopravvissuti. Dopo aver visto l’altro lato delle migrazioni forzate, quello della vita, la risolutezza di chi ce l’ha fatta, sono ancora più convinto delle scelte che ho fatto”.