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Come raccontare i fronti di guerra in Medio Oriente

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Secondo i dati dell’Unrwa, cioè l’Agenzia nell’Onu per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente, il Libano ospita in tutto 300mila rifugiati palestinesi, la Cisgiordania invece un milione e 100mila. Dal 7 ottobre 2023, i due paesi scontano l’influenza della guerra tra Israele e Hamas. Ma entrambi, in realtà, vivono il trauma da più tempo. Francesca Mannocchi al Festival del giornalismo internazionale di Perugia, ricorda: “Il Libano lo vive da 75 anni, tuttavia, non esponendolo. I palestinesi che vivono nel Paese hanno lo stato di rifugiato e, quindi, non possono accumulare ricchezza, né possedere case”.

Vivono, in questo modo, una ferita che non possono né affrontare né arginare, originata dalla negazione del diritto di ritorno: “La nakba è l’idea di essere strappati, cacciati da quel luogo”, spiega Paola Caridi. “Quell’espulsione ha significato l’impossibilità di rivendicare il diritto al ritorno, laddove si era nati”. Dall’inizio del conflitto l’ombra di una nuova espulsione è tornata. Come raccontare quindi tutto ciò?

Per rispondere alla domanda, Mannocchi parte da un episodio accadutole mentre si trovava a Tulkarem, una città palestinese nell’area occidentale della Cisgiordania. Lì il campo profughi, non una è distesa di tende, ma come molti altri nel Paese, è stato istituito durante il conflitto del 1947-49 ed è una “città-ghetto”: “Per Israele questi luoghi sono il quartier generale del terrorismo, per i palestinesi sono il cuore della resistenza armata. Sono due modi diversi di raccontare due verità che esistono”. Tulkarem, dunque, nella notte è protagonista di un’incursione dell’esercito israeliano. La mattina dopo, la giornalista è testimone del risultato dell’operazione e incontra un uomo, che mostrandole la casa distrutta, si interroga sul perché di tutto questo. Mannocchi gli chiede se qualcuno della sua famiglia facesse parte di un gruppo armato e l’interlocutore nega. Eppure, guardando tra le macerie, distingue tre ordigni. In quel momento le accade qualcosa, che non aveva mai visto prima: “I vicini dell’uomo escono di casa e iniziano a gridare”. Chiedevano che il figlio non nascondesse più in quel luogo gli ordigni, perché vicino c’era una scuola e uno di loro critica il metodo scelto per difendersi. “Quando l’esercito israeliano dichiara di distruggere i bordi delle strade perché lì si trovano gli ordigni, dice il vero. Analogamente quando i gruppi armati affermano di dover usare gli esplosivi perché è l’unico modo a loro disposizione per difendersi, anche questa è una realtà – spiega Maccocchi -. Però il palestinese che scende e si ribella a un gruppo armato in cui non si riconosce, è la vittima della guerra meno raccontata”. E da lui è necessario ripartire, per interrompere la deumanizzazione della guerra e del suo racconto.

“Molti giornalisti utilizzano parole, come “neutralizzazione”, che eliminano il sangue dall’atto di uccidere. Perché il focus si sposta da chi viene ucciso a noi che non sopportiamo la brutalità”, dice Caridi. E quindi, per raccontare ciò che accade a Gaza, così come in Cisgiordania, è necessario anche fare uso di parole che possano aiutare a comprendere e dall’altra a definire la violenza: “In arabo esistono due parole per indicare la resistenza. “Muqawama”, che è quella armata, e “sumud”, quella non violenta”. Quest’ultima è stata portata avanti per anni, quotidianamente, dai palestinesi. E questa parte, come osserva Caridi, non viene raccontata: “Non ha diritto di cronaca perché cambierebbe la descrizione delle persone e la nostra percezione delle loro vite”. Da lì, perciò, è fondamentale ricominciare per narrare il trauma e ciò che sta accadendo in Medio Oriente.

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