Dopo dieci mesi consecutivi più caldi a livello globale dal 1880, il mondo dell’informazione fa luce su un’emergenza silenziosa, e, per questo, ancora più insidiosa. Mentre il giornalismo si interroga su come si debba parlare di clima, in Europa e nel mondo i movimenti ambientalisti alzano la voce, per chiedere garanzie per un futuro con sempre più incognite.
Nel 2023 solo il 2,7% delle notizie sulle principali testate italiane ha avuto come tema la crisi ambientale. Nei notiziari delle reti Rai, Mediaset e La7, la percentuale scende al 2,3%. Lo denuncia l’ultimo report di Greenpeace Italia sulla narrazione del cambiamento climatico nei media italiani. Giancarlo Sturloni, responsabile della comunicazione di Greenpeace Italia, commenta i dati, presentati in anteprima al Festival internazionale del giornalismo (Ijf) di Perugia: “La maggior parte degli articoli si concentra in corrispondenza delle grandi tragedie e i numeri dicono che oggi, in Italia, la crisi ambientale non viene rappresentata come un’emergenza”.
Ferdinando Cotugno, giornalista di Domani, autore della newsletter e del podcast Areale, ritiene che ci sia stato un miglioramento nell’informazione sull’argomento: “Negli ultimi anni la crisi ambientale è entrata nel giornalismo italiano”. A prevalere, però, è spesso la ricerca del record: “Siamo sempre alla ricerca dell’adrenalina e non rappresentiamo il fenomeno come un’emergenza destinata a durare”.
Inoltre, come illustra Sturloni, sono spesso narrazioni omertose: “Non vengono detti quali sono i responsabili della crisi: i combustibili fossili e le compagnie petrolifere”. Secondo i dati raccolti da Greenpeace Italia, in un anno intero i notiziari delle principali reti televisive hanno fatto riferimento alle compagnie petrolifere una sola volta. Sui quotidiani, invece, è accaduto appena 14 volte. È una conseguenza dell’intromissione delle aziende nei media, con finanziamenti e pubblicità: tra le pagine dei quotidiani, ogni settimana sono stati pubblicati circa cinque contenuti promozionali di imprese inquinanti.
Per chi, poi, fa i nomi e denuncia i veri responsabili gli ostacoli non mancano. Come racconta Cecilia Anesi, fondatrice di Irpi Media, chi realizza inchieste ambientali si trova a far fronte al potere legale delle multinazionali e ai controlli da parte delle milizie. In alcuni casi, si aggiungono i rischi per la salute. Anesi riporta la loro esperienza. Racconta, ad esempio, che quando un giornalista richiede l’accesso ai documenti amministrativi di un’azienda a un ente, inserendo come richiesto dal modulo i propri dati personali, può capitare che il titolare dell’impresa in questione lo contatti personalmente. “Vi parlo di domande di accesso documentale fatte al ministero dell’Ambiente e non a un comune di una piccola provincia italiana”, precisa Anesi. Perciò Irpi Media, ha creato un ufficio ad hoc, al fine di proteggere l’identità del giornalista.
Tra le vittime delle minacce, anche le organizzazioni ambientaliste. Di recente, Eni ha iniziato a fare la guerra a Greenpeace. “Abbiamo iniziato a dargli fastidio, quando li abbiamo definiti criminali fossili”, denuncia Sturloni. Da lì sono iniziate le cause. Eni domanda che Greenpeace non le attribuisca le responsabilità per il riscaldamento globale.
Un esempio, la carriera di Andrea Purgatori, ex-presidente di Greenpeace Italia. Proprio la sua capacità di fare sempre “nomi e cognomi” è stata ricordata dai presenti e dal figlio Edoardo Purgatori, in collegamento.
Come ricorda Sturloni, al silenzio dei media italiani su cause e responsabilità si accompagna il ritorno del negazionismo, causato anche dalla presa di parola sempre più frequente dei politici: nel 2023 il 14% degli articoli dedicati al cambiamento climatico hanno diffuso narrazioni contro la transizione. Nei tg, la percentuale aumenta al 16%. In questo, l’attivismo svolge un ruolo chiave. Ai giovani e ai movimenti ambientalisti si deve l’attenzione sul tema e il ritorno del discorso al centro dell’attenzione.
I “cani da guardia” dell’ambiente e del clima
E proprio sui movimenti ambientalisti si stanno accendendo i riflettori di un dibattito sempre più vivace. Mentre alcuni riconoscono alla protesta un valore fondamentale, catalizzatore per il cambiamento, “assistiamo a una giustizia repressiva: persone attiviste minacciate, imprigionate e, in alcuni casi, uccise”, denuncia Ilaria Masinara, di Amnesty International Italia. Una delle campagne in corso dell’associazione, “Cambiamenti cimatici e diritti umani” sta infatti portando al centro il delicato rapporto tra diritti e la necessità di un’azione immediata su larga scala. “Constatiamo invece delle caratteristiche che accomunano lo spazio regionale con quello internazionale: legislazioni restrittive, uso della forza da parte delle forze di polizia non proporzionale e non necessaria, sorveglianza elettronica e digitale, narrativa tossica — che criminalizza le persone attiviste e svia l’attenzione dal potere del cambiamento della protesta”.
Ed è proprio la narrativa tossica che apre la strada a conseguenze ancora più gravi per gli attivisti del clima: “Concetti come quello di eco-terrorismo aprono la strada a normative speciali. C’è una deriva sempre più violenta nel descrivere azioni che violente non sono”, dice Xenia Chiaramonte, ricercatrice in sociologia e filosofia del diritto. Un fenomeno che non è solo italiano, ma europeo. “La polizia europea considera questo attivismo climatico come qualcosa di pericoloso ed estremo. E le organizzazioni ambientaliste trattate alla stregua di organizzazioni criminali”, commenta Miguel Angel Medina, giornalista de El Pais.