Nel 2019 sono stati uccisi 50 giornalisti e per 25 di questi è confermato che la motivazione è legata al loro lavoro.
È quello che emerge dagli ultimi dati pubblicati da CPJ, il comitato di protezione dei giornalisti, ed è il dato più basso dal 2002, quando gli uccisi erano stati 35 e per 21 di questi il motivo è stato accertato. I paesi in cui si sono registrati più morti violente sono il Messico, con 10 giornalisti assassinati, e la Siria, che conta 7 giornalisti uccisi dal fuoco incrociato.
Il calo rispetto all’anno precedente è notevole. Nel 2018, anno in cui Jamal Khashoggi è stato assassinato all’interno del consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul, i morti erano 78. Dal 1992 invece, anno in cui sono iniziate le rilevazioni del CPJ, sono stati uccisi 1363 giornalisti.
“Il calo del numero di giornalisti uccisi è certamente il benvenuto dopo anni di intensificazione della violenza e rafforza la nostra determinazione a combattere l’impunità e fare tutto il possibile per proteggere i giornalisti – ha detto Joel Simon, direttore esecutivo di CPJ – ma non dobbiamo essere contenti. La triste realtà è che i nemici della libertà di stampa hanno a disposizione molti strumenti, tra cui la reclusione, minacce legali, molestie online e tecnologie di sorveglianza sempre più sofisticate”. Infatti, sempre secondo i dati di CPJ il numero di giornalisti imprigionati è rimasto nella media degli ultimi anni, con 250 professionisti che ancora popolano le carceri mondiali. Il paese che nel 2019 detiene più giornalisti nelle prigioni è la Cina (48), seguita da Turchia (47), Arabia Saudita (26), Egitto (26), Eritrea (16), Vietnam (12) e Iran (11). Per la maggior parte le accuse sono di comportamenti contro lo stato.
Ma anche chi non rischia la vita non sempre può svolgere il proprio lavoro giornalistico. La censura continua a limitare la liberà di stampa in molti paesi.
Al primo posto c’è l’Eritrea che già nel 2001 ha chiuso tutti i media indipendenti e ora lo stato detiene il monopolio legale dei media e i giornalisti sono costretti a seguire la linea del governo per paura di essere incarcerati.
Al secondo c’è la Corea del Nord. Anche se proclama la libertà di stampa nella sua Costituzione, la maggior parte dei contenuti giornalistici deriva dalla Korean Central News Agency (KCNA) e sono focalizzati sulle dichiarazioni e le attività di Kim Jong Un. Anche i corrispondenti internazionali sono oggetto di censura e spesso è proibito loro entrare nel paese o vengono espulsi. Seguono poi il Turkmenistan e l’Arabia Saudita.
In Cina, al quinto posto, ogni organo di stampa, privato o pubblico, deve sottostare alle direttive del Partito Comunista, dal 2017 nessun sito o account social può diffondere notizie senza un permesso e sono bloccate le ricerche di notizie che vengono dall’estero.
In Iran infine il governo sopprime l’espressione online spiando i giornalisti, bloccando i broadcast delle tv satellitari e bloccando milioni di siti web e piattaforme di social media.
Il report di CPJ segue quelli già pubblicati alla fine dello scorso anno di Reportes sans Frontières e della Federazione Internazionale dei Giornalisti, che evidenziavano già una situazione simile.