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Chiara Saraceno: “Non chiamatela festa, l’8 marzo è lotta”

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Esperta di famiglia e delle sue trasformazioni, Chiara Saraceno ripercorre il significato più profondo dell’8 marzo e di come la violenza sulle donne sia un tema che avremmo dovuto archiviare tempo fa, ma che ancora oggi rimane protagonista nella nostra società.

di Raffaele Angius

Il numero di femminicidi in Italia è rimasto pressoché invariato dal 2016 all’anno precedente, perché si parla di emergenza?

Il problema è che non c’è stata una diminuzione dei femminicidi nonostante gli omicidi siano diminuiti. L’emergenza è che dobbiamo interrogarci sul fatto che, soprattutto nei legami privati con i propri compagni o familiari, ci sia qualcosa nei rapporti tra uomo e donna, nello stereotipo del maschile e del femminile, che fa sì che l’uomo si senta legittimato a uccidere quando qualcosa va storto. Inoltre, ci sono anche donne che non colgono l’insopportabilità di alcuni comportamenti maschili. Si sacrificano per il bene dell’unità familiare o perché pensano che il mondo sia fatto così, lasciando trascorrere molto tempo prima di denunciare violenze e soprusi tra le mura domestiche. È questo a far sì che alcuni uomini si sentano autorizzati a gesti di violenza impensabili.

Il 2016 è stato anche l’anno dei Family Day. Il richiamo alla famiglia tradizionale è una risposta?

No, il contrario. Quando parlo degli schemi di genere mi riferisco anche a quello. Trovo anzi preoccupante, al di là della non correttezza di quegli slogan, la lotta che si è scatenata verso la cosiddetta teoria di genere, perché impedisce di constatare quante asimmetrie rischiose possano derivare da questi stereotipi. L’uomo e la donna non coincidono più con i ruoli sociali assegnati loro storicamente e purtroppo con la scusa di contrastare l’omosessualità, ammesso che sia giusto contrastarla e non lo è, si mettono in discussione decenni di riflessioni femministe sul fatto che essere donna o uomo non significa avere determinati ruoli sociali o determinate capacità.

Quindi esiste un concetto di famiglia ideale?

Ovviamente no. Intanto bisogna distinguere la famiglia ideale da quello che ciascuno di noi vorrebbe come famiglia. Tutti potremmo avere un ideale di famiglia. Il problema è quando abbiamo un modello normativo di famiglia univoco e fondato su una forte asimmetria di genere. Dovremmo tendere a lasciare spazio alla libertà di ciascuno di essere ciò che vuol essere dando spazio alle risorse e associando la libertà con il rispetto e con il senso del limite.

Secondo una recente ricerca si registrano più casi di violenza sulle donne al nord che al sud, e in particolare nel nord dell’Europa dove le condizioni di vita dovrebbero essere migliori. Come possiamo leggere questi dati?

Intanto li prenderei con le pinze: c’è differenza tra dati statistici e giudiziari. Nel nord le donne denunciano molto di più, ma secondo me il dato più importante è che la violenza contro le donne è trasversale. Non è un problema degli uomini istruiti o più poveri ma è proprio in un certo modello di uomo. Può darsi comunque che in società in cui le donne hanno più possibilità di rompere gli stereotipi, gli uomini indisponibili a questo cambiamento si sentano più sollecitati a reagire: ma se andiamo a guardare le vittime di violenza troviamo professioniste e casalinghe, quindi sia chi ha rotto le asimmetrie sia le donne convinte che la famiglia sia il loro mondo e si sentono responsabili se al marito non è piaciuta la minestra. L’unica soluzione è bloccare la violenza da subito e rifiutare un rapporto che possa evolvere in violenza.

Parliamo di femminicidi o anche di violenze più lievi?

Da un rapporto realizzato in Italia qualche anno fa è risultata evidente una diminuzione delle violenze lievi. Evidentemente c’è stato un cambiamento: più uomini hanno assunto un comportamento civilizzato nel quotidiano. Eppure non diminuiscono le violenze gravi. È come se si fosse riusciti a intaccare la soglia del comportamento “spicciolo” ma non si riesca a colpire lo zoccolo duro di quelli che ti mandano all’ospedale.

Lo Stato ha messo in campo misure volte a contrastare la violenza sulle donne, come il Protocollo Eva attivo da inizio anno. Secondo lei si sta facendo abbastanza?

Sono misure utili ma non sufficienti. Dovremmo fare più prevenzione, anche se la Polizia fa già un lavoro interno di sensibilizzazione: tengo spesso degli incontri con loro per parlare di questo tema. Ciò che non deve mai accadere è che una donna che si rivolge alle strutture per denunciare maltrattamenti si senta rispondere che si tratta solo di una discussione passeggera e che passerà. Però il problema vero è educare, fin quando si è bambini e bambine, al senso del limite. È un tema di cui non si parla, ma con i social network si dimostra assolutamente centrale.

Si occupa del problema della violenza all’interno dei social network?

Faccio parte di una commissione parlamentare sull’hate speech nominata dalla Presidentessa Boldrini e abbiamo avuto anche degli incontri con i rappresentanti di Facebook e Twitter. Le donne che sono sui social network ricevono molti più insulti e proposte degli uomini. Ci sono persone che odiano le donne nel profondo. Ci sono pagine non liberamente consultabili dove uomini mettono foto delle loro ragazze o delle loro sorelle per le loro masturbazioni virtuali, è impressionante.

Alcuni tendono a ridurre questo problema alla sfera dei discorsi tra maschietti. Non è solo goliardia?

Esattamente, ma la goliardia si dedica prevalentemente alle donne ed è sempre sessuata. Dicono la parola “goliardia” come se fosse normale, ma non è sempre buona, come non lo è il nonnismo nell’esercito. Per crescere non bisogna necessariamente uniformarsi alla violenza linguistica, e l’anonimato serve a deresponsabilizzare gli uomini.

Questo tipo di linguaggio lo hanno creato i social network?

Probabilmente è sempre esistito. Anche per i ragazzi della Via Pal l’insulto era un modo di farsi amici. Ma l’arrivo dei social network è stato come mettere una bomba atomica nelle mani di queste persone, le quali oltretutto si sentono garantite dall’anonimato di internet. Aziende come Facebook o Twitter promettono di fare tanto, ma ancora non abbiamo visto iniziative realmente significative, almeno in Italia. La quantità di messaggi violenti contro donne o immigrati rimossi da queste aziende è molto maggiore in Francia e Germania che in Italia. Ma questo perché hanno la sede in Irlanda, dove forse non colgono il senso dei messaggi pubblicati. Noi suggeriamo che abbiano una sede nei vari Paesi così da poter filtrare meglio e avere un contatto con le forze dell’ordine. Un mese fa una ragazza ha scoperto l’esistenza di un sito contenente linguaggi violenti contro le donne e l’ha denunciato sulla sua pagina. Facebook però ha bloccato lei, non capendo chi fosse realmente la vittima.

La presidente della Camera Laura Boldrini è la politica italiana che più di tutte si è spesa pubblicamente su questo tema. Non pensa che abbia ottenuto un effetto boomerang, attirando più ire che nuova sensibilità?

Le politiche ricevono più insulti rispetto agli uomini ovunque. Anche Hillary Clinton è stata insultata più di Trump secondo gli studi americani. Essere donna non ti avvantaggia, ma ti rende anzi bersaglio di un linguaggio violento. Lei ha trasformato il suo essere donna in una bandiera e questo agita chi ce l’ha con lei.

Dalla parola “femminicidio” al titolo “patata bollente”, come ci siamo arrivati?

Mi rendo conto che il termine “femminicidio” sia una parola violenta, ma parla dell’ammazzamento delle donne in quanto tali, quindi è appropriata. Quello che mi rattrista è che la violenza sia necessaria per mobilitare più persone.

In che senso?

Dovremmo parlare di parità salariale e di relazioni di potere. Studio queste materie da anni e non avrei mai pensato che dopo tutto questo tempo speso a lottare saremmo ancora stati qui a discutere di violenza, facendo inevitabilmente passare il resto in secondo piano. “Patata bollente”… Abbiamo parlato di goliardia giustappunto. Non mi turba più di tanto, ho sentito di peggio. Ma se mio nipotino a scuola impara il rispetto e poi apre un giornale e trova questo linguaggio si sente legittimato. Ci sono ragazzini già alle elementari che pensano che sia normale mettere le mani sotto le gonne delle ragazze perché lo sentono dire in giro.

Che significato ha quindi l’8 marzo?

Dovrebbe essere un giorno di battaglia. Io ogni 8 marzo sono un po’ depressa innanzitutto perché sono allergica alle mimose (Ride, ndr). Purtroppo l’8 marzo è diventato simile alla festa della mamma. Ma non è la mia festa, è come il Primo Maggio, il giorno in cui si ricorda che la battaglia è ancora lunga. Non è un giorno da festeggiare ma un giorno in cui prendere le misure di cosa si deve ancora fare.

Che ruolo dovrebbe avere l’uomo nell’affiancare le donne per i loro diritti?

I diritti delle donne sono una faccenda che riguarda sia le donne che gli uomini. Non solo perché dovrebbero rinunciare a qualcosa, dato che finora hanno avuto un monopolio, ma anche perché è una battaglia che riguarda la società in cui vivono, la nostra civiltà, la democrazia e il nostro saper vivere. La violenza sulle donne chiama gli uomini alla responsabilità di contrastare gli altri uomini che fanno violenza. Devono lavorare per cambiare lo stesso modello di uomo.