Esiste una leggenda dell’Italia meridionale, plasmata sul mito di Atlante, le cui prime attestazioni risalgono al XII secolo. La leggenda di Colapesce, la cui versione più conosciuta è palermitana, racconta di un giovane figlio di pescatori, di nome Nicola, capace di rimanere sott’acqua anche per ore intere. Quando il giovane tornava in superficie portava tesori e raccontava delle meraviglie del mare. Il suo talento arrivò fino alle orecchie del re che, giunto in Sicilia, chiese a “Cola” di dargliene una dimostrazione. Federico II di Svevia gettò due volte la corona nelle acque che bagnano Palermo e per due volte Colapesce riuscì a riconsegnarla. La terza e ultima volta, il ragazzo scese in apnea e non tornò più. Si era fermato, secondo il mito, a sostenere una delle tre colonne che reggono la Sicilia, perché il tempo e il mare (o l’Etna in un’altra versione) l’avevano quasi distrutta.
Carmen Consoli, catanese e cantautrice, è siciliana come il mito. Ieri la “cantantessa” ha aperto il tour al teatro Colosseo di Torino, pieno per “L’Eco delle sirene”. È la scelta acustica (chitarra, violino e violoncello) per una tournée che porterà l’artista in giro per tutta Europa: da Parigi a Bruxelles, da Amsterdam a Dublino, nove appuntamenti fino al 5 febbraio.
La voce della Consoli sprigiona dal palco la stessa sofferenza che prova chi regge il mondo o soltanto la Sicilia. La forza che si nasconde tra le sue corde vocali è la stessa di chi racchiude il dolore di quella terra, la stessa di Colapesce.
Nel concerto acustico esce la nuova versione di Carmen Consoli. Una vocalità ruggente e spesso più rock di quanto si sia abituati a pensare. Le sue eroine sono donne, stuprate, uccise, distrutte dal pettegolezzo o dall’invidia. Donne di provincia che, con verismo verghiano – altro conterraneo della cantantessa -, affrontano la disperazione tra i paesaggi dei Malavoglia. Come in “Mio zio”, canzone sull’incesto familiare, o in “Contessa Miseria”, ritratto di una donna sola, impegnata in un’eterna lotta contro il tempo.
L’umorismo è l’altro filo conduttore della poetica della Consoli. L’ironia amara traspare nelle conclusioni di molti suoi pezzi e negli inframezzi tra una canzone e l’altra. Il prelato che ferma la predica nel bel mezzo della messa, perché il boss di turno deve fare la comunione in “A’ finestra”, è la fotografia di quel microcosmo di soprusi di cui vive la realtà provinciale.
E nel gioco di luci, soffuse e leggere, Carmen Consoli resta in penombra, celando il viso per far esplodere soltanto la voce. La voce della Sicilia o di tutte le province, sottolineata dal blues della sua chitarra. È lo sforzo di chi resiste mantenendo il peso di quel dolore come il maggiore dei sacrifici, come il mito di Colapesce.