Un omicidio che scosse l’Italia nel periodo più duro della storia repubblicana ha trovato un nuovo epilogo, dopo oltre 30 anni. Il 26 giugno del 1983, alle 23.30, il magistrato Bruno Caccia fu assassinato da un commando, con 14 colpi di arma da fuoco, in via Sommacampagna a Torino, nell’unico momento in cui era privo della propria scorta. Il caso è stato riaperto nel 2015 e le indagini sono state guidate da Marco Martino, all’epoca capo della squadra mobile di Torino, il quale per la prima volta ha raccontato la sua versione della vicenda.
Il caso Caccia non è isolato e avulso dal contesto storico in cui avvenne: Il delitto s’inserisce nel durissimo periodo degli anni di piombo, quando attentati e stragi di stampo terroristico e mafioso affollavano la cronaca e coinvolgevano giudici, politici, industriali e figure di spicco della società italiana. Solo cinque anni prima era avvenuto il rapimento, conclusosi poi in omicidio, dell’Onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, ad opera delle Brigate Rosse. La stagione delle stragi avrebbe trovato culmine e conclusione solo nei primi anni ’90, con le stragi di Capaci e Via D’Amelio, nelle quali persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Tuttavia l’omicidio del pm torinese presenta delle particolarità che lo contraddistinguono. Si tratta infatti del più eclatante caso di omicidio di stampo mafioso avvenuto al di fuori del Sud Italia, preceduto solo dall’attentato dinamitardo al procuratore di Aosta Giovanni Selis, avvenuto il 12 dicembre del 1982, nel quale il magistrato rimase fortunatamente illeso.
Bruno Caccia, nelle parole di Marco Martino, viene ricordato come “un uomo di grandissima integrità, il quale svolgeva il proprio lavoro di magistrato con perizia, professionalità e senso del dovere, e proprio questa caratteristica lo rendeva inviso ai propri aguzzini”. In quello stesso periodo a Torino, in corrispondenza con una forte emigrazione da tutto il meridione verso il Nord Italia, si erano costituite delle cosche mafiose di origine siciliana e calabrese, affiliate a Cosa Nostra e all’Ndrangheta. Tra queste, le due famiglie che si distinsero furono i catanesi Miano e i calabresi Belfiore, provenienti dell’area di Gioiosa Jonica, sui quali Caccia era titolare di numerose indagini. Dopo un’iniziale ipotesi di stampo brigatista, i sospetti della Polizia di Stato spostarono le indagini proprio sulla criminalità organizzata, individuando Domenico Belfiore come mandante. La ragione dell’efferato delitto era riconducibile all’impossibilità di corrompere o scendere a compromessi con il procuratore Caccia, il quale era intenzionato ad ostacolare lo sviluppo della cosca con ogni mezzo. In quegli anni, l’influenza della malavita a Torino e nel Piemonte era fortissima e si esprimeva principalmente in rapine, furti, sequestri di persona (fino al 1987), omicidi, estorsioni, usura e gioco d’azzardo.
Domenico Belfiore fu condannato all’ergastolo in quanto mandante dell’omicidio, ma non fu trovata traccia degli esecutori materiali del delitto, protetti accuratamente da una fitta rete di omertà. Questo almeno fino al 2015, anno in cui la famiglia Caccia, insieme all’avvocato Fabio Repici, chiede la riapertura delle indagini al tribunale di Milano. Nel frattempo Domenico, detto “Mimmo”, aveva ottenuto il permesso per scontare la propria pena ai domiciliari, a causa dell’anzianità e dei problemi di salute. La squadra mobile di Torino, sotto la guida di Martino, sfruttando tutte le proprie conoscenze e gli strumenti tecnologici all’avanguardia per effettuare le intercettazioni, riuscì a individuare Rocco Schirripa, di professione panettiere, anch’egli soldato della ‘ndrina Belfiore, come uno dei membri del commando che assaltò e uccide il procuratore Caccia nell’83. Schirripa è stato condannato all’ergastolo nel gennaio del 2020.
“In questo ambiente esistono tre tipi di verità: la bugia grande, la bugia piccola e la statistica – ha spiegato Marco Martino -. Noi dobbiamo lavorare per avvicinarci sempre di più alla realtà dei fatti, che è e sarà sempre però parziale. Oggi ancora non c’è un vero vincitore, l’arresto di Schirripa non è sufficiente. ‘Caccia è stato ucciso non per il presente ma per il futuro’ si disse all’epoca. L’idea era di ricordare la presenza e il potere della criminalità organizzata nel territorio nel passato, nel presente e nel futuro. Oggi, grazie a tutti i nostri sforzi, le mafie versano in grandi difficoltà, ma non sono certo scomparse.”