Un classico popolare e l’inno della Resistenza, ma anche l’oggetto di molte cover famose, la colonna sonora di serie tv e infine anche un film. “Bella ciao” non smette di evolversi nel tempo, dando ispirazione alle nuove generazioni, e ogni nuovo interprete aggiunge qualcosa di sé alla canzone. Il documentario “Bella ciao – per la libertà” racconta proprio questo: un brano le cui origini si perdono nel tempo, ritorna in forme nuove e abbatte le barriere e i confini tra i popoli, divenendo inno degli oppressi e dei perseguitati in tutto il mondo.
Il progetto del documentario, che ha debuttato a Torino lo scorso 13 aprile al cinema Fretelli Marx, nasce recentemente: nel nostro Paese “Bella ciao” è indissolubilmente legata alla resistenza dal nazifascimo e al 25 aprile, ma negli ultimi anni è diventata anche oggetto di cultura pop. La serie tv spagnola “La casa di carta”, prodotta e distribuita da Netflix, l’ha inserita nella colonna sonora, facendole acquistare enorme popolarità tra il pubblico giovane e straniero. “La prima volta in cui ho cantato ‘Bella ciao’ è stato all’Università – racconta lo sceneggiatore Javier Gomez Santander in un’intervista a Repubblica –. Gianluca, uno studente italiano in Erasmus, aveva una chitarra e la cantavamo tutti insieme. Cantare ‘Bella ciao’ era il punto più alto di tutte le feste. E da quel momento l’ho sempre usata per darmi coraggio. Mi piace il significato di questa canzone, la lotta che porta con sé. Un giorno mi sono svegliato con il pensiero fisso della serie che mi tormentava e ho deciso di metterla su. Ho capito che ‘Bella ciao’ e ‘La casa di carta’ condividevano l’anima. Ho gridato: siamo partigiani”.
Il successo della serie ha portato a diffondere il brano presso un pubblico nuovo, generando cover e tributi di ogni genere. È proprio da qui che la regista Giulia Giapponesi ha tratto ispirazione per il suo lavoro: “Mi ero resa conto che ‘Bella ciao’ era diventata una hit internazionale, fioccavano cover di tutti i generi, in tantissime lingue. Nei commenti su YouTube però non si parlava dei partigiani, ma della serie Netflix ‘La casa di carta’. Il sentimento era duplice, da un lato era bello vedere tante persone in tutto il mondo cantare questa canzone, dall’altro vedere che la canzone non portasse con sé il suo messaggio originale mi preoccupava. Volevo fare un lavoro che avesse un linguaggio moderno, con un ritmo veloce, per raccontare la storia alle giovani generazioni”.
Il documentario raccoglie in due ore la storia del brano, dalla sua genesi incerta, passando per le bande partigiane, le prime versioni registrate, le cover più popolari fino ai giorni nostri. Un lavoro completo, che si espande nel tempo e nello spazio, e riesce nell’impresa non facile di aprire molte tematiche ed essere comunque esaustivo: “Io stessa mi sono resa conto che molte cose non le sapevo. Ho scoperto la polemica, iniziata con Giorgio Bocca e Gianpaolo Pansa, sull’autenticità di ‘Bella ciao’ come canto partigiano. Per approfondirla sono entrata in contatto con Cesare Bermani, storico, e Carlo Pestelli, autore di un libro sul tema”. Ma la ricostruzione non è solo nel tempo: “È iniziata così un’avventura che sarebbe rimasta circoscritta alla storia, se non fosse stato per l’aiuto di Rai Documentari e Palomar che ci ha permesso di spaziare. Abbiamo aggiunto uno sguardo internazionale, parlando del popolo curdo oppresso che canta questo brano, dell’opposizione turca nel regime di Erdogan o dei giovani iracheni: da un film sulla storia è diventato un film sul presente”.
L’opera si avvale di una varietà di voci notevole, che aiuta ad arricchire il quadro di dettagli sempre nuovi e interessanti. Il progetto ha visto la partecipazione anche di nomi illustri dell’arte, come il cantautore Vinicio Capossela e l’attore Moni Ovadia. Si avvale di storici esperti come il già citato Bermani e Marcello Flores D’Arcais. Ma il suo punto di forza sono le voci dei protagonisti della liberazione: due partigiani e una signora raccontano i propri ricordi legati al periodo e al brano. Particolarmente interessante è la storia di Floriana Diena Putaturo, all’epoca bambina, che racconta la resistenza ad Alba e come i bambini cantassero ‘Bella ciao’, ma con un testo leggermente diverso.
La scelta di parlare di “Bella ciao” però è legata anche a un affetto personale: “Io sono nata negli anni ’80 in Emilia, l’ho imparata alle scuole elementari – racconta Giapponesi –. Mia nonna mi raccontava chi fossero i partigiani e io ho imparato la storia della mia famiglia e del nostro Paese attraverso questa canzone. Quando sono arrivati i Modena City Ramblers con la loro versione, io mi sono sentita offesa, perché sembrava una commercializzazione di qualcosa di sacro. Cisco, il cantante, mi ha confermato che molti all’epoca la videro così. L’importanza del loro gesto si è capita dopo, e ne parliamo nel documentario. Quando andavano a suonarla negli anni ’90 i ragazzini erano entustiati: credevano che fosse un pezzo loro”.
Il documentario non rinuncia a nessuna controversia: negli anni si è molto discusso se “Bella ciao” fosse un brano legato esclusivamente al mondo politico della sinistra. In realtà, spiega sempre la regista, la polemica risulta priva di senso: “È un discorso provinciale che trova l’apice nell’epoca di Berlusconi. La resistenza è stata fatta da molte anime politiche diverse e ‘Bella ciao’ le abbraccia tutte. È vero che nel dopoguerra è stata cantata prevalentemente nelle manifestazioni, ma questo è un brano che la destra ha lasciato alla sinistra. In realtà la canzone è di tutti noi”.
Oggi sono molti i popoli nel mondo che vivono nell’oppressione, nella paura o affrontano la tragedia della guerra. “Mentre stavamo concludendo il documentario è scoppiata la guerra in Ucraina. Mi rammarico di non averla inserita, perché anche questo è un esempio importante”, conclude Giulia. Il messaggio del brano si presenta ancora oggi come drammaticamente attuale.