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Avvocati, bassi redditi e meno laureati, da Torino la riflessione sul futuro: “La sfida è specializzarsi”

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Un anno nero anche per gli avvocati quello contraddistinto dalla pandemia da Covid-19. Diminuisce il reddito dei professionisti, già in calo da anni. Ancora presto per dirlo, ma il dato potrebbe in parte spiegare la diminuzione di neolaureati in Giurisprudenza che iniziano il praticantato dopo il percorso di studi. A Torino le iscrizioni alla pratica sono state 348 nel 2016 e solo 248 nel 2020, con un’impennata di 371 iscrizioni nel 2018.

L’ultimo rapporto Censis sull’avvocatura rivela che sono più del 61% in Italia i professionisti che nel 2020 hanno fatto ricorso al reddito di ultima istanza di 600 euro messo a disposizione dal governo. A Torino sono stati circa il 50%. Una condizione che impone un cambio di passo della professione e una riflessione sul suo futuro.

“Ognuno dovrà fare la propria parte per uscire da questo periodo storico, economicamente vicino al periodo post bellico. La nostra è quella di specializzarci e individuare settori di potenziale specializzazione in relazione alla evoluzione delle nuove economie”. Lo spiegano Simona Grabbi, presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino e la collega consigliera Giulia Facchini.

Con uno sguardo sul territorio, come interpretate i dati dell’ultimo rapporto Censis sull’avvocatura? Che anno è stato per gli avvocati?

Se è vero che una altissima percentuale di avvocati (a Torino circa il 50% degli iscritti) ha fatto ricorso alle provvidenze statali, è anche vero che il reddito medio degli avvocati italiani ha smesso di crescere a due cifre nell’anno 2006. È poi anche vero che nel 2019 il reddito medio annuo degli avvocati italiani è cresciuto del +1,8%, ma il dato su cui occorre riflettere è che il reddito medio IRPEF attualizzato degli iscritti alla Cassa di previdenza è sceso dai 55.666 euro dell’anno 1996 ai 40.180 euro dell’anno 2019. È questo il dato più eloquente.

I dati relativi al reddito degli avvocati nel 2020 li potremo vedere solo il prossimo anno. Ma, tenuto conto delle risposte dei colleghi alle domande del rapporto Censis, si può immaginare una riduzione ulteriore dei redditi singoli e medi che, dato il tempo che intercorre tra la data dell’emissione della parcella e il suo incasso, per molti si riverbererà, purtroppo, anche sull’anno 2021.

Questi dati, che per quanto riguarda la condizione reddituale delle colleghe sono tragicamente più bassi, fotografano una grave crisi della professione soprattutto nella declinazione al femminile. Non a caso sono fortemente diminuite le richieste dei giovani laureati di iniziare il praticantato,  come sono diminuite le iscrizioni alla facoltà di Giurisprudenza.

È in corso una crisi della professione?

Noi diremmo: da cosa viene questa crisi? Le cause, a nostro parere, molteplici. L’avvocatura è composta da professionisti, tutti iscritti al medesimo albo, con peculiarità  davvero variegate e difficili da “governare” unitariamente. Se a questo si aggiunge una difficoltà, ormai datata, di individuare modelli di rappresentanza  dei colleghi da tutti condivisi si comprende come non si sia ancora riusciti a individuare linee chiare di rilancio della professione, che possano essere da tutti portate avanti.

È tuttavia possibile, ed auspicabile, un cambiamento di paradigma non oltre dilazionabile e una sempre maggiore specializzazione.

Sarebbe necessaria una riforma della professione?

A nostro parere, oggi la questione più importante per gli avvocati italiani è quella di dare attuazione al regolamento sulle specializzazioni, emanato nel 2015 e oggetto di un iter di impugnazioni e modifiche che non si è concluso neppure oggi.

Le specializzazioni, come ben rilevato dal Consiglio di Stato, consentono di “colmare un disallineamento tra offerta e domanda dei servizi legali”. Con la messa a regime del regolamento in questione i cittadini e le imprese che hanno necessità di un servizio legale possono trovare agevolmente il professionista più adatto e realmente formato sul tema di loro interesse, interrogando semplicemente i siti degli Ordini del Consiglio Nazionale Forense.

L’impegno del nostro Consiglio sarà quello di lavorare, e in tale senso abbiamo già creato un apposito gruppo, perché i colleghi possano vedersi riconosciuto al più presto, avendone i requisiti, il titolo di specialista e di promuovere la formazione continua negli ambiti di ciascuna specializzazione.

A quali specializzazioni dovrebbero puntare i futuri avvocati?

Se pensiamo al diritto di famiglia, ad esempio, aumenteranno le separazioni transnazionali perché i nostri giovani, se possono, vanno all’estero e lì faranno famiglia. Ma anche la materia della protezione dei soggetti vulnerabili, a causa della popolazione anziana che aumenta e che andrà tutelata. Materia di interesse sarà sempre di più anche quella della privacy connessa ad internet e del diritto penale nel settore informatico.

Se dovessimo guardare ai nuovi trend dell’avvocatura, si comprende che la professione deve evolversi insieme ad un mercato che cambia. Bisognerebbe concentrarsi poi sulle consulenze alle aziende negli ambiti cruciali per lo sviluppo, come il diritto ambientale. Il Recovery Plan ha tra gli obiettivi quello della transizione ambientale. È su questo che le aziende dovranno confrontarsi e uniformarsi. Sarà necessario seguire gli ambiti di sviluppo economico per creare una nicchia di vera specializzazione, perché è questa la nostra ambizione. Ormai l’avvocato che fa tutto è difficile che riesca a restare nel mercato.

La condizione attuale della professione potrebbe essere legata ad un “eccesso di offerta”?

In Italia ci sono ben 231mila avvocati, circa 4 per ogni 100 abitanti. A nostro parere il tema non è solo questo, anche se, comparati ad altri ordinamenti a noi simili, il numero degli avvocati italiani è davvero sproporzionato rispetto ai 60mila avvocati francesi e ai 163mila avvocati tedeschi. Il problema è che gli avvocati italiani sembrano, ancora dell’ultimo rapporto Censis, in larga parte concentrati sull’attività giudiziale  e su quella a beneficio di clienti privati, piuttosto che sulla ricerca di nuovi campi di attività o di nuove modalità di svolgimento della professione.

Vorremmo  solo fare un esempio. Il nostro ordine ha un ottimo organismo di mediazione, eppure la percentuale delle mediazioni che terminano con un accordo è di circa il 6%. Questo significa che ancora molti colleghi non apprezzano quanto possa essere risolutiva, per la rapidità della tutela dei diritti, la degiurisdizionalizzazione di certi contenziosi.

Insomma, a nostro parere iniziare a guardare i bisogni reali del cliente, sia quelli che il cliente ci porta, sia quelli che non ha ancora realizzato di avere, è fondamentale per passare dall’attività giudiziale alle ADR (Alternative Dispute Resolution) e dalle ADR alla consulenza preventiva che è uno dei tasselli presenti e futuri della  nostra professione. Gestire il problema prima che sorga è il modo migliore per fare risparmiare al cliente guai e denari. Ed è questo che va fatto comprendere a colleghi, cittadini e imprese.

Una donna presidente dell’ordine torinese. Il ruolo delle donne nell’avvocatura è cambiato nel tempo?

Prima di me un’altra donna, la Presidente Michela Malerba, in carica dal 2017 al maggio del 2019. Sempre il rapporto Censis ci dice che l’avvocatura si è progressivamente femminilizzata e, ad oggi, il 48% degli iscritti alla Cassa sono colleghe. Tuttavia, da un lato i carichi familiari, ancora in via preponderante  per tradizione culturale sulle spalle delle donne, e, probabilmente, una timidezza quando non una incapacità delle colleghe di riconoscere il valore del proprio lavoro e di rivendicarlo senza ritagliarsi un ruolo solo ancillare, e di domandare il giusto compenso, porta a disparità reddituali persistenti.

Le condizioni reddituali delle colleghe sono tragicamente più basse di quelle degli uomini. Le avvocate in ogni distretto di Corte d’Appello e in ogni classe di età hanno un reddito che arriva a malapena al 50% di quello dei colleghi avvocati. E il divario aumenta proprio in alcune regioni del nord, come Lombardia e Veneto, in cui il reddito femminile è inferiore di oltre la metà rispetto a quello maschile.

L’impegno del Consiglio e del suo CPO  è quello di aiutare  a raggiungere quella concreta parità sopperendo alle necessità  discendenti dai carichi familiari (per esempio il progetto del baby parking all’interno del Palazzo di Giustizia piuttosto che il riconoscimento, grazie al CPO del Consiglio e degli Uffici Giudiziari, del legittimo impedimento in ragione della genitorialità) anche sotto il profilo reddituale riaffermando il valore della parità di genere anche nella libera professione. Per farlo, occorre credere in noi stesse e predisporre aiuti concreti.

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