“Il dover comunicare fa paura: capita che il dipartimento di marketing decida se una mostra si fa oppure no sulla base della capacità di essere comunicata”. Ilaria Bonacossa, 44 anni, da quest’anno dirige Artissima, il principale evento di arte contemporanea a Torino. Lo spunto per intervistarla è The Square, il film di Ruben Östlund premiato con la Palma d’Oro di Cannes che polemizza con la società e i vizi del mondo dell’arte.
A cominciare dal potere della comunicazione.
Non è esasperato come nel film ma è vero. Magari viene concessa una mostra difficile all’anno, le altre però devono essere più spendibili per poter andare sui giornali.
The Square attacca anche un certo modo di scrivere d’arte, la critica evasiva e fumosa. Cosa ne pensa?
Credo che la critica sia in crisi perché è un mondo molto autoreferenziale, soprattutto in Italia. Viene il dubbio che i testi che raccontano l’arte vengano scritti così per tenersi un potere che nessuno può contraddire: parlando in maniera poco comprensibile, in artese, è difficile confrontarsi e muovere critiche. È certamente un problema se due persone laureate, mediamente colte, non capiscono le descrizioni che accompagnano le mostre.
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Quanto è grave la situazione?
Penso sia il caso di scendere dal piedistallo. Serve una via di mezzo: la scrittura deve spiegare e incuriosire, offrire chiavi di lettura senza chiudere l’interpretazione. La bellezza di una opera forte è la capacità di trascendere, di dare allo spettatore la possibilità di vedere altri significati sulla base dell’esperienza personale. Certo è che se non diamo strumenti per leggere l’opera, lo spettatore rimane cieco.
Quella contemporanea è un’arte in crisi di significato?
Ci sono opere bidone, è vero, però anche un sacco di opere belle. Mi spiace che in The Square nessuno si prenda la briga di giustificare un’opera bella. Quella dell’uomo cane, ad esempio, è forte. È ispirata a quella di Oleg Kulik, che si esibiva a Mosca fingendo di essere un cane al guinzaglio. Il suo gesto di muoversi a quattro zampe, nudo, era un gesto politico come per dire “siamo ridotti a bestie”. Nel film non si parla di emozioni, ma ci sono un sacco di opere in grado di muovere e comunicare.
L’arte è democratica?
No, non lo è, come nessuna sofisticata forma culturale. Il mondo dell’arte però è ghettizzato: la gente si sente ignorante, e visto che non piace a nessuno sentirsi così allora evita mostre e esibizioni, si allontana dall’arte dicendo che fa schifo. Il museo è un’istituzione, un simbolo del potere. E crea distanza: la stessa opera in una abitazione privata piace, mentre in un museo non viene capita.
Perché succede?
L’arte patisce la colpa che la gente pensa di doverla capire. Un film piace o non piace, annoia o diverte, ma difficilmente qualcuno dice che non l’ha capito. Dovremmo avere il diritto di approcciare l’arte come si fa con una canzone: mi piace o non mi piace.
Qual è il rapporto tra arte e periferia, anche in considerazione degli atti di vandalismo nei confronti delle installazioni di Luci d’Artista?
Non è vero che l’arte non può andare in periferia, ma non può arrivarci come un extra terrestre. Se deve andare in posti dove gli abitanti non sono abituati a vederla è opportuno che l’artista crei un contatto con il luogo, vivendolo, raccontando i propri progetti e cercando di far nascere nelle persone una sorta di affezione. Altrimenti l’arte in periferia serve soltanto a pulirsi la coscienza.
C’è qualcosa che vorrebbe che i musei italiani facessero?
L’arte dovrebbe far parte della vita quotidiana. Sogno legami più forti tra arte e istruzione, sul modello americano dove i musei hanno al proprio interno le università e gli studenti vanno a fare l’aperitivo nelle gallerie. Il museo di arte contemporanea è un luogo in cui i ventenni possono vivere e divertirsi. Lo stato di salute è comunque buono: in Italia il punto di forza è la varietà, anche se è preoccupante che le città facciano a gara l’una contro l’altra.