“Abbiamo bisogno di poche idee, ma chiare”. A pronunciare queste parole, con tutta la convinzione di cui dispone, è Asier. Ha vent’anni e non vede l’ora di entrare a far parte dell’Eta, organizzazione terroristica basco-nazionalista. È uno dei protagonisti dell’ultimo romanzo di Fernando Aramburu, Figli della favola, che riporta i lettori dello scrittore spagnolo al mondo di Patria. Ma se nel romanzo del 2016 (Premio Strega Europeo) viene raccontata la devastazione dell’ideologia armata dalla prospettiva di chi subisce il fanatismo, nel suo ultimo libro Aramburu ribalta le carte in tavola. Mette in scena due giovani baschi che desiderano mettersi al servizio dell’organizzazione terroristica, guidati dalla certezza di aver trovato lo scopo della propria vita. Le vicende, però, non permettono questa realizzazione. Quando i due vanno in Francia per il reclutamento, la Eta si scioglie. Ma i protagonisti non vogliono sentire ragioni. La loro realtà non esiste più eppure loro perseverano, senza strumenti né maestri. Così comico e grottesco danno forma alla trama di un libro che spoglia l’ideologia di ogni dignità e la rivela per quello che è: una semplice favola.
“È un romanzo che ho scritto insieme a Patria, a cui però, poi, ho dato la priorità – racconta l’autore, intervistato dal giornalista Mario Calabresi -. Ai tempi chiesi alle persone con le quali condivido la ferita del terrorismo quale idea preferissero. Mi consigliarono quella che poi si è trasformata nel romanzo del 2016. Figli della favola, in verità, non sapevo bene come scriverlo, soprattutto dal punto di vista morale. Avevo il timore che un libro che parlasse di terrorismo, ma che allo stesso tempo fosse divertente, potesse provocare del dolore alle vittime. Così ho chiesto un parere ai diretti interessati, a chi aveva perso una persona cara negli attentati. Ho assicurato che i terroristi di cui parlavo non avrebbero portato a termine alcuna uccisione. Mi hanno detto che si poteva fare”.
A quel punto Fernando Aramburu ha ripreso in mano la bozza che aveva lasciato in sospeso, con la necessità di raccontare come, alla base di ogni fanatismo, ci sia una banale povertà intellettuale. E ha adottato anche un espediente stilistico particolare, che l’autore ha vissuto come una sfida. “Mi sono detto: voglio che in ogni frase non ci sia più di un verbo. Ogni tanto mi piace mettermi alla prova in questo modo”. Ma tornando alla trama, i due ragazzi immaginati dall’autore fondano una nuova organizzazione. Che però conta solo due persone. Continuano ad essere fedeli ad una retorica ormai sorpassata, ligissimi alle vecchie regole. “L’ideologia è senza scenario, quindi si crea una situazione assurda – spiega lo scrittore -. Io non ci metto nessun tratto umoristico nel racconto, il ridicolo nasce dalle situazioni che si susseguono, legate da un filo logico”. A guidare la penna di Aramburu è la volontà di indagare l’essere umano e mostrare in che modo la storia collettiva si ripercuota sugli individui.
E quando Mario Calabresi chiede se non ci sia un po’ di Cervantes in questo romanzo, l’autore dice scherzando: “Questi due vanno in giro a fare battaglia. Mentre scrivevo, intorno a pagina 38, ho proprio pensato: ‘questo mi suona familiare’. Sì, credo che il paragone sia inevitabile. Quello che c’è da notare però è che i miei personaggi sono convinti di agire per creare la Storia. Ed è quello che i membri della Eta, come quelli di altre organizzazioni, pensavano davvero. Non voglio assolutamente ripulire il terrorismo, che sia chiaro. Ma ritengo che le menti intellettualmente più fragili siano più a rischio nel subire la propaganda. La malvagità è più stupida di quanto si creda, che è un po’ quello che riteneva anche Hannah Arendt”.
Oggi, dice Aramburu, a cavallo dei Pirenei si parla ancora troppo poco di quella pagina di storia che ha visto centinaia di persone uccise negli attentati. “Non si parla del passato, a meno che non ci siano polemiche. Ad esempio, è successo che alcuni ex terroristi si candidassero alle elezioni. Si cerca di dimenticare, ma c’è anche parecchia confusione. Non tutti la pensano allo stesso modo, il linguaggio stesso è diverso: alcuni lo chiamano terrorismo, altri lotta armata”. Ma ribadisce la sua posizione, mostrando di non essere pessimista. “Ho sempre pensato che si debba creare una memoria. Il ricordo deve passare tramite le biblioteche, le fotografie, i racconti. Io cerco di dare il mio contributo con la fiction letteraria. È il mio piccolo granello di sabbia”.