“Una delle persone che in questo nostro mondo di studiosi, di docenti, di appassionati si distingueva per equilibrio, preparazione e capacità di cogliere le situazioni”. Così Cesare Annibaldi, direttore delle relazioni esterne della Fiat negli anni Ottanta, ricorda Giuseppe Berta, storico dell’industria italiana morto nel maggio di un anno fa. Berta, noto per gli studi sul capitalismo, le élite economiche e la storia della grande impresa, in particolare della Fiat, viene omaggiato con un convegno, martedì 6 maggio, al Polo del ’900 di Torino.
Il primo incontro di Annibaldi con Berta risale agli anni in cui il manager di origine marchigiana cominciò a lavorare a Torino, in ambito Fiat: “Lì ho iniziato a seguire la parte che si era addensata negli anni di documentazione – racconta -. E lui è stato da subito molto impegnato per approfondire, per costruire un quadro coerente”.
Oltre al rapporto personale – “Sono stato sempre, oltre che un amico, uno che l’ha sempre apprezzato” – Annibaldi riconosce in Berta una figura intellettuale di riferimento: “Si è creato un rapporto capace di orientare riflessioni e decisioni”. È un legame che va oltre la memoria, e che richiama l’importanza del rigore e dell’approfondimento nella lettura dei grandi fenomeni storici e produttivi del Paese.
Giuseppe Berta ha dedicato buona parte della sua carriera allo studio della grande impresa italiana, in particolare della Fiat e del suo ruolo nella trasformazione del Paese. Tra le sue opere più importanti, Mirafiori. La fabbrica delle fabbriche, edito da Il Mulino nel 1996, resta un punto di riferimento per comprendere l’evoluzione dell’identità operaia e il significato simbolico dello stabilimento torinese nel Novecento.
In quel libro, Berta ha saputo intrecciare archivio, racconto e analisi economica, offrendo una visione complessa e dinamica della fabbrica come spazio di produzione, conflitto e cultura. Un approccio che ancora oggi mantiene intatta la sua attualità, soprattutto in un momento storico in cui il lavoro industriale sembra sempre più marginale ma continua a essere centrale nelle tensioni sociali ed economiche del nostro tempo. Nel suo ricordo, Berta diventa così emblema di un modo di pensare e studiare la storia industriale “con visione”, in un Paese che ha spesso mancato le occasioni per “fare salti di qualità”.
Annibaldi guarda, con lucidità, anche all’evoluzione delle relazioni industriali e alla loro situazione attuale: “Dico una banalità: bisogna migliorare, c’è bisogno di fare grandi studi. Un’esigenza di costruire bene questo mondo. Le idee fondamentali, che si sono sviluppate nel corso del tempo, come quella della partecipazione, hanno perso di vigore. Ci manca una molla culturale, oltre alle idee giuridiche” In questo senso, la figura di Berta resta un punto di riferimento: “Bisogna credere in questi strumenti di rafforzamento politico-sociale, ma serve coinvolgimento, serve visione. E Giuseppe l’aveva”.
A ricordare Giuseppe Berta c’è anche Stefano Musso, ex direttore dell’Ismel (Istituto per la memoria e la cultura del lavoro, dell’impresa e dei diritti sociali) ed ex docente di storia dell’industria all’Università di Torino: “Era un amico e una persona molto intelligente, lavoratrice, che ha dato un contributo notevole agli studi sul mondo del lavoro in Italia, soprattutto dal secondo dopoguerra a oggi”.
Sul tema della partecipazione e della mancanza di una molla culturale, Musso concorda con Annibaldi: “Insieme a Berta avevano pubblicato un volumetto in cui ponevano il problema della partecipazione. Un tema che considero tuttora cruciale, perché le imprese si trovano oggi ad affrontare sfide complesse, tra globalizzazione, instabilità dei mercati e crescente competizione internazionale”. Musso sottolinea l’attualità di quel confronto: “Oggi, con il cambiamento delle politiche statunitensi sul commercio internazionale, servono nuove soluzioni. Il conflitto distributivo ha caratterizzato a lungo le relazioni industriali italiane: per anni i profitti sono cresciuti più dei salari, la produttività più rapidamente del costo del lavoro. Ma ora si apre uno spazio per soluzioni cooperative. È il momento di ripensare strumenti e strategie”.
L’approccio di Berta, secondo Musso, era quello di chi cercava un terreno di dialogo. “Insieme ad Annibaldi ha provato a costruire una riflessione storica sulle relazioni industriali torinesi, che hanno avuto una tradizione fortemente conflittuale. L’idea era di ragionare sul passato, riconoscere responsabilità diffuse e favorire un clima nuovo, basato su relazioni più cooperative. Una sorta di scambio tra partecipazione sindacale e aumenti di produttività, con benefici anche per i lavoratori: salari, condizioni di lavoro, professionalità”.
E, rispetto alla Mirafiori che Berta descrive negli anni, Musso riconosce un radicale cambiamento: “Torino è stata a lungo una company town. La Fiat dominava il mercato del lavoro: metà dei metalmeccanici torinesi, forse di più, erano suoi dipendenti, e con l’indotto si arrivava alla quasi totalità. Era la colonna portante dell’economia cittadina”. Ma dagli anni Novanta lo scenario cambia. “Si chiude l’età fordista, iniziano i tagli, la crisi dell’azienda. Per anni si è detto che Fiat fosse troppo piccola per competere e troppo grande per essere acquisita. Poi è arrivato Marchionne, con un rilancio che però ha definitivamente rotto il legame con Torino. Fiat non era più Torino-centrica già con lo stabilimento di Melfi, e oggi è una multinazionale senza una radice territoriale precisa: prima con Chrysler, ora con Stellantis, la sede legale è in Inghilterra, quella fiscale in Olanda. Mirafiori contava 50mila dipendenti, oggi è tutta un’altra storia”.