La testata del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino

Perché è ora di riscoprire gli anni Settanta

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Perché il dopoguerra, così come il fascismo, è entrato da subito nel vivo della discussione, mentre la narrazione degli anni Settanta fa più fatica? Prova a rispondere Andrea Pomella, scrittore romano ospite al Salone del Libro di Torino. L’incapacità dell’elaborazione di questo periodo storico è dovuta al fatto che non riusciamo a guardarlo senza preconcetti o sovrastrutture, e questo impedisce un ragionamento limpido: l’idea che prevale è quella complottistica, secondo lo scrittore. Un tipo di narrazione che inquina ogni altra. “Forse i veri anni Settanta sono quelli che stiamo vivendo, perché oggi tutti prendiamo la parola pubblicamente”, conclude Pomella.

Vanessa Roghi, autrice di “Eroina”, cita De André sul problema del confronto con la generazione del Sessantotto. La voce su quella stagione è stata da subito segnata dall’appartenenza: una forte coincidenza tra chi raccontava e chi aveva vissuto. “A causa dell’uso del termine ‘Anni di Piombo’, ci dimentichiamo che è stato un decennio stupendo sotto molti punti di vista”. Questo è frutto di una deresponsabilizzazione eccezionale verso ciò che andava storto. In questo senso, l’Operazione “Blue Moon” è stata una bufala molto efficace: l’eroina sarebbe arrivata in Europa attraverso un’operazione della Cia che mirava a stroncare i movimenti studenteschi. Quando il consumo di eroina è diventato diffuso, non più legato alle lotte, ha smesso di essere interessante. Perciò molti credono che l’eroina sia confinata a quel decennio.

Roghi usa un racconto di Gianni Rodari per spiegare la contrapposizione tra incanto e disincanto. Un giovane gambero decide di camminare in avanti: incontra un vecchio rivoluzionario che gli consiglia di non commettere i suoi stessi sbagli. Secondo Roghi è necessario rompere questo binomio, guardando a chi non sa come a una possibilità, non come a una sconfitta: è così che si capisce come trasmettere in modo funzionale la memoria. “Se oggi i ragazzi richiedono salute mentale è perché si sono resi conto che per fare qualsiasi rivoluzione bisogna stare bene”, dice la scrittrice.

“Quella degli anni Settanta è stata la prima generazione che è riuscita a prendere la parola, ma nessuno scriveva”, spiega Marino Sinibaldi, che ha partecipato al docufilm di Aldo Cazzullo “Lotta Continua”: i giovani avevano altro a cui pensare, ma questo non ha aiutato la narrazione successiva. Secondo Sinibaldi, l’antiautoritarismo è stato un momento fondamentale, il cuore di quegli anni: l’opposizione all’autorità è una rottura radicale che fa uscire svariati spunti per poi rimetterli insieme. La lotta contro il potere dava voce a chi prima non ne aveva. L’autore sottolinea che, più del non potere rimanere indifferenti (il “Siete per sempre coinvolti” di De André), negli anni Settanta è stato fondamentale il “Mi interessa”. Le strade dell’incanto sono forse imprevedibili: il Sessantotto è stato uno di quei momenti della storia in cui si crea un vortice, succedono tante cose nello stesso momento e senza motivo. La trasmissione è una parola cruciale in questo senso, ma il giornalista racconta il suo timore di gonfiare le sue esperienze giovanili. Sinibaldi rivendica invece l’umiltà, una delle eredità del Sessantotto. “Non abbiamo mai raccontato, ma non ci hanno mai detto la verità: è stata questa la sconfitta comunicativa”.

Tra i fondatori di Lotta Continua, Guido Viale torna sulla presa di parola, iniziata con l’occupazione delle università: si è assistito a un mescolamento di persone dalle origini molto differenti, ciascuno interessato a scoprire l’altro. Ma il vero cambiamento è stato il confronto tra studenti e operai, che fino a quel momento appartenevano a una classe muta: questo incontro ha permesso loro di parlare e di conquistare spazi di libertà e di crescita. Un fermento che si è riversato nelle assemblee di operai e studenti, organizzate per quattro anni di seguito due volte al giorno, nel momento in cui la Fiat era in lotta: le “grandi riunioni di autocoscienza”, le chiama Viale. Non si parlava di cosa fare: ciascuno tirava fuori se stesso e al contempo si rivedeva nei racconti degli altri. Gli incontri si fondavano sulla solidità dei rapporti personali. Poi è nata Lotta Continua, che ha coperto tutti gli strati sociali, arrivando negli anni migliori a contare circa 200 sedi. Un tessuto di solidarietà contro cui la giustizia si è scagliata nel 1982. Il processo a Lotta Continua, che ha portato alla condanna a 22 anni di reclusione per tre militanti, è stato usato, secondo Viale, per consolidare l’immagine negativa degli “Anni di Piombo”, di cui Lotta Continua era grande espressione. Adriano Sofri è stato dichiarato colpevole per aver difeso la cultura del Sessantotto, non per la morte del commissario di polizia Luigi Calabresi. “Quel tipo di società – spiega Viale – non è ripetibile. Ma dobbiamo vergognarci quando critichiamo i giovani perché sono gli unici che si muovono. Per il momento non hanno trovato una sede dove prendere la parola, quindi dipingono i monumenti. Ma quando potremo assistere alla creazione di questi contesti, scoppierà l’inferno”.

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