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Anna Politkovskaja, scrivere sfidando il potere

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Sì. Due lettere e una parola semplice da pronunciare, ma forse non per tutti. Quando il Direttore de La Stampa Massimo Giannini chiede a bruciapelo: «Putin è un dittatore?», Vera Politkovskaja ha un qualche momento di esitazione. Attimi di silenzio che rimbombano al binario 3 delle Ogr di Torino. Neanche fossero un treno in riparazione.

In quel “da” pronunciato a denti stretti è racchiusa la storia di Vera, figlia della reporter russa Anna Politkovskaja uccisa a Mosca il 7 ottobre 2006. Una madre (Rizzoli) è un racconto potente, un “ponte tra passato e futuro con un occhio sulla questione russa e ucraina” che Vera sceglie di edificare assieme a Sara Giudice: “Un’esperienza meravigliosa – dice la giornalista de La7 – abbiamo scavato dentro il dolore e dentro i ricordi per metterci in gioco personalmente”.

Giannini, moderatore dell’incontro che ha inaugurato gli Ogr Talks 2023, presenta così Anna Politkovskaja: “Un modello di vita e di impegno civile per me che sono un giornalista e per chiunque abbia a cuore questa umanità”. Nell’arco della sua carriera, Anna si è distinta per aver raccontato “come nessun altro ha saputo fare” la guerra in Cecenia attraverso 60 reportage che hanno trovato spazio sulle pagine di Novaja Gazeta, una delle poche voci indipendenti dell’informazione russa messa a tacere all’indomani dello scoppio della guerra in Ucraina il 24 febbraio dello scorso anno.

Quando Anna venne uccisa a 48 anni, nel 2006, freddata con cinque colpi di pistola davanti all’ingresso di casa, nella vita di Vera e di suo fratello Il’ya “è cambiato tutto: per gli anni a seguire il nostro maggiore impegno è stato quello di partecipare alle indagini e mantenere vivo il ricordo di nostra madre”. Vera ricorda come la notte sua madre non dormisse e l’unico rumore in casa fosse il ticchettio della tastiera del pc. Anna intendeva la professione giornalistica come missione civile, ancor di più dalla salita al potere di Putin nel 1999: “combattere per la verità era un aspetto costitutivo del suo carattere, era una giornalista scomoda anche nelle sue stesse redazioni perché spesso discuteva anche con i caporedattori per perseguire la giustizia”.

Vera racconta come per anni la sua famiglia abbia vissuto con la preoccupazione che da un momento all’altro potesse accadere quel che poi, purtroppo, è diventato realtà nel 2006. “Mia madre era consapevole che ciò che faceva avrebbe messo in pericolo la sua vita, per questo ha cercato di preparare me e mio fratello. Le minacce sono state molte e si sono concentrate soprattutto negli ultimi anni della sua vita, ma per quanto noi potessimo essere pronti la notizia della sua morte è stata uno shock”.

Per tanti cittadini russi il lavoro di Anna Politkovskaja ha rappresentato una lente per capire il mondo al di là dell’informazione ufficiale drogata dalle logiche propagandistiche imposte del regime di Putin, che nei giorni scorsi è tornato a sottolineare come la Russia “farà di tutto per la vittoria” in Ucraina. Lo stile “asciutto ed essenziale” con cui Anna ha raccontato la guerra in Cecenia ha attirato su di sé l’ombra delle minacce del potere, in particolare quelle degli ambienti vicini a Ramzan Kadyrov, l’ex “macellaio di Groznyj”, oggi capo politico ceceno fedelissimo di Putin. Vera nel libro scrive: “Il modo di mia madre di fare giornalismo è morto con lei”. Mentre sulla scoperta della verità sul suo omicidio, aggiunge: “Noi membri della famiglia non abbiamo mai perso la speranza nei confronti della giustizia. Abbiamo sospetti, ma la presunzione di innocenza ci impone il silenzio. Forse non è stato tutto inutile e i nostri sforzi un giorno non saranno stati vani”.

Uno degli aspetti che più colpisce nella vicenda di Anna Politkovskaja è l’isolamento che ne ha caratterizzato l’esistenza anche all’interno delle redazioni nelle quali ha lavorato: per i suoi colleghi (ma “non quelli di Novaja Gazeta”, precisa Vera), Anna era “la pazza di Mosca”. Bloccati dalla paura, dall’omertà e da una reale incapacità di cogliere nel segno l’impegno di Anna nel mondo del giornalismo, erano moltissimi a non capacitarsi di come quella donna preferisse raccontare il conflitto dal campo, “in una regione dilaniata dagli scontri, in situazioni estreme di freddo e precarietà”, invece di “rimanere seduta in redazione e lavorare da lì”. Fare informazione con l’obiettivo di perseguire la verità rappresentava per Anna Politkovskaja una missione civile e non fu sufficiente neppure tentare di avvelenarla per impedirle di raccontare la strage di Beslan del 2004 per farla desistere dal suo obiettivo.

“Determinata contro i misfatti del potere, isolata e in un clima ostile”, la resistenza di Anna fu strenua fino all’ultimo, quando per metterla a tacere dovettero ucciderla a colpi di pistola, lei che come arma non aveva che l’inchiostro della sua penna.

Vera Politkovskaja e il suo interprete sul palco di Ogr talks insieme a Massimo Giannini. Foto di Ilaria Ferraresi.

Nelle ultime battute dell’incontro, il racconto di Vera si sposta sull’attualità di una Russia in cui “si può parlare tranquillamente solo in cucina, facendo attenzione a lasciare il telefono dall’altra parte della casa”. È in questo scenario orwelliano che avviene l’ultima offesa alla famiglia Politkovskaja. All’indomani dell’attacco all’Ucraina, un anno fa, la fuga di Vera e di sua figlia Anna (il nome di sua nonna, uccisa poco prima che nascesse). Poche settimane dopo, la dacia di famiglia viene data alle fiamme. Un “pogrom per aver attaccato il potere”, lo definisce Giannini. Un gesto di una gravità a tratti difficile da comprendere se non si ha contezza del valore simbolico della dacia nella cultura russa. Un luogo in cui dedicarsi al riposo, lontano dallo stress della città e immersi nella natura: semplicemente, una delle accezioni più autenticamente russe del termine “casa”.

La voce di Vera si fa più flebile quando parla del vuoto che si è venuto a creare attorno a sua figlia di 16 anni, isolata a scuola e vittima di “attenzioni violente” per aver espresso più volte la sua opinione sul conflitto in Ucraina. “Bisogna dire la verità, non si tratta di un’operazione speciale, ma di una guerra contro uno stato aggredito. Persone innocenti vengono uccise e questo non è giusto”. Quando Giannini chiede se l’Occidente faccia bene ad aiutare fino in fondo l’Ucraina di Zelensky, Vera Politkovskaja non ha dubbi: “Sono assolutamente convinta che se in un angolo della strada vedi un indifeso che viene picchiato, devi aiutarlo. Se volgi lo sguardo dall’altra parte allora chi sei?”.

Questo interrogativo accompagna il pubblico all’ultima domanda, la più attesa. La lezione di Anna Politkovskaya è stata l’importanza di vivere sulla propria pelle l’esperienza dei fatti per poterli raccontare nel modo più vicino possibile alla verità.

“Ne è valsa la pena?”.

“No, perché le è costata la vita”.

E, probabilmente, anche perché non sembrano intravedersi segni di cambiamento.

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