Gli eroi del Grande Torino sono di nuovo tutti riuniti, insieme, sotto lo stesso cielo. Anche Sauro Tomà, l’ultimo superstite dopo lo schianto di Superga del 4 maggio 1949, a 92 anni ha raggiunto i suoi ex compagni di squadra. Lui, su quel maledetto volo per e da Lisbona, non era salito, a causa di un infortunio al ginocchio destro che lo aveva costretto a fermarsi e a curarsi con i forni e i fanghi. “Ero vivo, non ero partito. Ma puoi essere vivo quando porti la morte nel cuore?”, è una delle frasi più significative di Tomà in Me Grand Turin (Graphot, 1998), il più conosciuto dei due libri (l’altro era Vecchio Cuore Granata) che scrisse per ricordare la mitica squadra con cui vinse due scudetti tra il 1947 e il 1951.
Era il sostituto naturale di Virgilio Maroso sulla fascia sinistra, aveva raccolto 77 presenze totali in granata, 40 in campionato di cui 26 al fianco degli Invincibili. Era loro amico, li chiamava “I miei fratelli”. In particolare Guglielmo Gabetto e Valentino Mazzola, con cui divideva la camera nelle trasferte e che lo accolse con pasta e filetto in una trattoria, al primo giorno da granata. Lui ricambiava standogli vicino nei momenti difficili della vita privata, come il divorzio dalla prima moglie Emilia Ranaldi con due figli piccoli, Sandro e Ferruccio, diventati anche loro calciatori. “Faccio voti perché tu torni a giocare e dimostri ancora una volta la tua classe elevata”, gli scrisse il Capitano in un biglietto prima di partire per Lisbona. Un pezzo di carta che Tomà lesse solo il 5 maggio, aprendo l’armadietto dello spogliatoio al Filadelfia, e scoppiò a piangere, rimpiangendo da allora di non essere salito su quell’aereo insieme ai suoi compagni.
Quel pezzo di carta lo ha tenuto fino alla fine dei suoi giorni nel comodino vicino al letto della sua casa a due passi dal Fila arricchita da figurine, medaglie, foto, libri dei Campioni. Perché anche dopo l’addio ha sentito naturalmente la vicinanza alla sua squadra, al suo stadio, al popolo granata. Ma in campo reggere l’onda emotiva di Superga diventò sempre più difficile e dopo alcuni dissidi con la società e il presidente Ferruccio Novo, che pure lo volle dallo Spezia e in cambio girò 5 giocatori alla società ligure per averlo, lasciò Torino per chiudere la carriera prima al Brescia e poi al Bari.
Dopo il ritiro nel 1955 non ci pensò due volte e tornò a Torino, a casa – non a La Spezia, sua città natale, o nella Lunigiana, di cui era originario – rilevò un’edicola in corso Unione Sovietica e strinse amicizie con diversi colleghi. Tra loro Adriano Torre, che aveva visto giocare Tomà da piccolo e ha anche acquistato un seggiolino delle tribune del vecchio Filadelfia, presente alla camera ardente allestita nella Sala del Senato di Palazzo Madama in piazza Castello giovedì 12 aprile.
LA TESTIMONIANZA
IL RICORDO DI URBANO CAIRO E CHIARA APPENDINO
Dare l’ultimo saluto a Tomà a Palazzo Madama, così come avvenuto per gli altri Invincibili il 6 maggio 1949, è stata un’idea di Urbano Cairo, che ha colto immediatamente il parere favorevole della Giunta Comunale e della famiglia dell’ex calciatore. Il presidente del Torino – che ha ottenuto l’ok della Lega Serie A per giocare la prossima partita contro il Chievo col lutto al braccio e per far osservare un minuto di silenzio prima di tutti i match del 32° turno di campionato – ha sottolineato le imprese uniche di quella squadra capace di vincere 5 scudetti consecutivi, mentre il sindaco Chiara Appendino ha dichiarato che il Grande Torino è “un patrimonio sportivo, della città, della nostra storia e del nostro futuro”.
Tomà partecipava a tutte le manifestazioni che riguardavano il club e il ricordo del Grande Torino, il ricordo dei suoi fratelli. Ora li riabbraccerà, tornerà a correre insieme a loro in mezzo alle nuvole e raccoglierà gli applausi della gente che ha amato e ama quella grande squadra, quegli eroi, quella grande famiglia.