#abcfutura / 19 Zoom

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Chi ha detto che il termine zoom fa parte solo del vocabolario del fotografo? Anche nel giornalismo, per raccontare un fenomeno esteso e complesso, spesso è necessario selezionare un elemento, focalizzarsi su una storia specifica. Lo zoom rappresenta quindi l’attenzione che il giornalista rivolge a un fatto particolare, attraverso il quale restituisce una storia più complessa.

Dall’Afghanistan all’Ucraina con una macchina fotografica: così Paolo Siccardi documenta la realtà

Passaporti scaduti e visti di ingresso sparsi sulla scrivania, giubbotti antiproiettili, fotografie appese al muro e fotocamere immacolate. Uno studio che è un piccolo microcosmo fatto di vocabolari tascabili, maschere antigas, sabbia dell’Iraq conservata in un’ampolla. Tutto ricostruisce, frammento per frammento, le storie che Paolo Siccardi ha raccontato nella sua vita.

Giornalista e fotoreporter torinese di 62 anni, ha viaggiato dal Medio Oriente all’Ucraina fino all’Africa, per fotografare la guerra e le crisi umanitarie.

Inizia la sua carriera a Torino molto giovane, negli anni ’80, lavorando per agenzie di stampa e documentando, attraverso la fotografia, il terrorismo, le lotte operaie e le manifestazioni sulla scia del decennio precedente. “Poco alla volta decisi di staccarmi dal mondo torinese – racconta Siccardi – e iniziai a viaggiare per un’agenzia abbastanza importante italiana, occupandomi di altri temi, ma sempre legati al mondo del sociale”.

Il primo importante reportage: in Afghanistan. A soli 23 anni. Lì c’era la guerra sovietico-afghana che vedeva schierate, da un lato, la Repubblica Democratica dell’Afghanistan, sostenuta dall’Unione Sovietica, e dall’altro, i guerriglieri afghani noti come mujaheddin. “All’epoca l’Armata Rossa aveva invaso il Paese – racconta –. Io, giovanissimo, andai per documentare il conflitto con un’incoscienza di base. Un giorno chiesi di essere portato in una vallata, proprio dove stavano effettuando dei bombardamenti al fosforo. Al che gli accompagnatori mi dissero: ‘Ma tu sei pazzo!’”.

L’anno successivo, nel 1987, segue la rivoluzione Sandinista e i guerriglieri Contras alla frontiera con l’Honduras. Ed è in Giordania proprio il giorno in cui scoppia la Prima Guerra del Golfo. Per dieci anni documenta i conflitti nell’ex-Jugoslavia e, ancora, in Medio Oriente, Siria, Alto Golan al confine con Israele e Gaza.

“In Siria – continua il fotoreporter – io e altri colleghi eravamo accompagnati da alcuni fixer locali che ci portavano in certi frontline di quartiere, ci lasciavano lì per lavorare e poi tornavano a riprenderci verso sera. E lì scattava un po’ la paura: quando iniziava a farsi buio e i fixer non erano ancora tornati a recuperarci non ero molto tranquillo. Il lavoro di fotoreporter va fatto con uno schema preciso: andare, tornare e mettersi al sicuro, avere sempre una via di fuga. Stare in prima linea di notte è seriamente difficile, perché di notte i combattimenti spesso si accentuano”.

Attento ai temi sociali, Siccardi si reca anche in Bielorussia per raccontare la condizione infantile. E poi in Africa per realizzare alcuni servizi sui conflitti e le emergenze umanitarie in Senegal, Costa d’Avorio, Benin, Togo e Sud Sudan. A partire dal 2015 invece inizia a seguire il conflitto ucraino nel Donbass. “Io ho seguito la situazione ucraina fino a prima di questo intervento – spiega – e, soprattutto di notte, gruppi di assaltatori penetravano nella parte nemica. Per un fotoreporter o un giornalista che si trova lì per lavoro diventa tutto più pericoloso e quasi non ne vale la pena: in certe situazioni di pericolo le foto non le fai”. Siccardi ha documentato, fin dal principio, le tensioni in Ucraina e ha visto, passo dopo passo, l’escalation della guerra. “Ho iniziato a seguire la situazione in Ucraina esattamente nel 2015 al primo anniversario di Maidan – dice il fotoreporter torinese –. Da lì mi sono spostato con altri colleghi nel Donbass e sono sempre stato dalla parte ufficiale e governativa. Ho seguito in prima linea quelli che all’epoca erano i battaglioni volontari dei soldati, che poi col tempo sono stati aggregati all’interno del ministero della Difesa nei vari reparti. La situazione è esplosa, ma solo dopo 8 anni è diventata ufficiale. All’epoca quando parlavi con la gente ti dicevano: ‘Ah ma c’è una guerra in centro Europa? Ma non lo sapevo’. Non si conosceva questa guerra: era una di quelle guerre, così come nel Nagorno-Karabakh, a bassa tensione. E sarebbe scoppiata prima o poi anche a livello mondiale. Ci sono voluti otto anni”.

Una cifra stilistica inconfondibile, la sua. Il bianco e nero prevale sempre, insieme ai forti chiaroscuri che accentuano il contrasto tra luci e ombre.

“Io parto esattamente dalla realtà. Noi non documentiamo la realtà, ma un reale. A ogni partenza per l’estero per un reportage, c’è un lavoro di desk fatto a casa sulla conoscenza del luogo in cui devo andare. Secondo me l’immagine visiva è fatta da azioni e queste azioni messe insieme creano una narrazione della storia. Ciò che conta è che tutto sia veritiero. Non ho mai falsificato o tantomeno ricreato una situazione. Quando non si trova una storia, piuttosto non si porta a casa il lavoro”.

Siccardi vince il premio giornalistico nazionale “Reportages di guerra 2002”, promosso dalla Fondazione Antonio Russo e dall’Ordine dei Giornalisti dell’Abruzzo. Nel 2017 espone con altri 12 reporter alla mostra “Exodos” a cui viene conferita nel 2018 la medaglia d’oro del Presidente della Repubblica. E nel 2018 presenta con Roberto Travan “Arma il prossimo tuo” al museo Nazionale del Risorgimento italiano.

Per raccontare fenomeni estremamente complessi, come una guerra o una crisi umanitaria, un fotoreporter deve fare uno zoom su dettagli, fatti particolari che siano emblema di quella storia complessa. “Quando io arrivo in una situazione – spiega – cerco di calarmi in quello che sta succedendo, cerco di avere un contatto diretto con chi fotografo, con la popolazione. Perché lo strumento in sé, la macchina fotografica, è veramente uno strumento di difesa per chi sto riprendendo, percui devo mettere a proprio agio chi sto riprendendo. Io non posso arrivare in un campo profugo e fotografare di qua e di là. Non sono in uno zoo a fotografare gli animali. Devo capire, calarmi in quella situazione per raccontare storie veritiere”.
I suoi reportage sono stati pubblicati dalle più importanti testate giornalistiche, da Repubblica a La Stampa, al Time International, al Guardian.

Nella borsa di un fotoreporter, oltre alla macchina fotografica, deve esserci sempre “il buonsenso e in particolare l’anima di chi scatta e trasferisce nelle immagini un’emozione”, conclude Siccardi.