La testata del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino

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Il linguaggio è fondamenta e materia prima del mestiere giornalistico. Per loro natura, le parole che lo compongono sono in continua evoluzione: nel tempo cambiano le sensibilità e cambiano le persone, i lettori – e lettrici, e lettorə. Se ancora non è del tutto cambiato il fantomatico “lettore medio” – sempre uomo, sempre etero, sempre bianco, sempre sempre sempre cisgender – non significa che abbiamo il diritto, come giornalistə, di ignorare l’esistenza del diverso e del non conforme. Non si tratta di cambiare radicalmente il modo in cui parliamo, ma di parlare con consapevolezza e usare il linguaggio più corretto per ogni situazione.

Il femminicidio di Giordana Di Stefano: una morte raccontata male

Vera Squatrito non è tornata a casa sua per dieci giorni e dieci notti, dal 7 ottobre del 2015, quando è morta sua figlia Giordana Di Stefano. Già dall’ora di pranzo, un’orda di giornalisti aveva invaso Nicolosi, un piccolo comune di meno di ottomila abitanti vicino a Catania, e l’ingresso di casa sua. Vera però non riusciva a parlare, così se n’è andata, insieme alla nipote appena diventata orfana, a casa dell’unica figlia che le era rimasta.

Quello di Giordana è il novantacinquesimo caso di femminicidio del 2015: ad ucciderla con 48 coltellate è stato Luca Priolo, il suo ex compagno, che era anche il padre di sua figlia e il suo stalker. Giordana lo aveva denunciato due anni prima, nel 2013, e proprio questa denuncia è il movente che spinge l’uomo a pianificare l’omicidio della giovane.

Nei giorni immediatamente successivi all’assassinio, Vera, madre della vittima, non riesce a parlare, non ci riesce nessuno che conoscesse o amasse Giordana in vita. Così i giornali riportano le frasi di chi resta. Restano Ester e Iole, che vengono presentate come amiche della vittima, ma erano poco più che conoscenti, che dicono che “lui era geloso, ma non violento. Lei non aveva paura di lui”.  Resta Igor, un amico dell’assassino di Giordana, che lo descrive come “un ragazzo buono e sempre disponibile, che voleva bene a Giordana e voleva tornare con lei”. Resta il procuratore di Catania, Michelangelo Patanè, che dichiara: “non vi erano elementi che potessero far presagire questo tragico epilogo. Ragazza e omicida si erano visti in ‘buona armonia’ e avevano festeggiato il compleanno della bimba ad agosto”. L’omicidio viene definito un raptus.

Sono state scritte inesattezze, bugie, rimproveri alla vittima, che un po’ se l’era anche cercata forse. Poi, l’orda di giornalisti se ne è andata e si sono spenti i riflettori sulla morte di Giordana Di Stefano, che alla fine non ha nulla di speciale. Parlare male di un caso di femminicidio, però, non è solo doloroso per i familiari della vittima e le persone che più in generale la amavano, ma significa perpetrare la stessa logica in cui la violenza domestica nasce, prolifera e talvolta culmina nella morte. Una ricerca della studiosa Jane Monckton-Smith dimostra che generare empatia nei confronti dell’assassino spesso sfocia in sentenze più lievi in tribunale. Quello che si scrive, come lo si scrive, ha un impatto concretissimo nella realtà: ogni racconto fedele di femminicidio invece è un’opportunità per prevenire altre morti.