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A quindici anni dall’indipendenza del Montenegro, i Balcani guardano all’Unione Europea

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Il 21 maggio del 2006 la vittoria del sì al referendum sull’indipendenza del Montenegro sanciva la dissoluzione definitiva dell’ex Jugoslavia, iniziata nel 1991 con l’indipendenza della Slovenia e continuata in maniera sanguinosa per tutti gli anni 90. A quindici anni esatti da quella data, cosa è cambiato nei Balcani?

Il referendum con cui il Montenegro ottenne l’indipendenza dalla Serbia fu tutt’altro che un plebiscito. Per una strana regola la soglia d’approvazione venne fissata al 55% e il sì la spuntò per un’incollatura, prevalendo con il 55,5% dei voti. Un paese spaccato, che non reciderà mai i legami con Belgrado e che verrà da questi subito riconosciuto, al contrario di quanto accaduto pochi anni prima con il Kosovo. Qualche settimana dopo il referendum si tennero in Germania i mondiali di calcio, e Serbia e Montenegro erano ancora rappresentati da un’unica nazionale, che aveva strappato il pass per la fase finale l’anno precedente. Per la prima e unica volta nella storia dei mondiali vi era una selezione di giocatori provenienti da uno Stato che non esisteva più.

Da allora le tensioni tra le varie etnie che popolano i Balcani, che erano sfociate nelle guerre jugoslave dal 1991 al 1999, non si sono mai del tutto sopite. Poche settimane fa un documento confidenziale del Primo ministro sloveno mostrava un progetto di ridefinizione dei confini, con assegnazione di nuove aree a Serbia e Croazia, una suddivisione che potrebbe fungere da detonatore per una nuova stagione di violenze nei paesi dell’ex Jugoslavia. Ma secondo Cristopher Cepernich, docente di Sociologia della comunicazione all’Università di Torino e profondo conoscitore della regione, il rischio di un nuovo conflitto è remoto: “Le tensioni non scompariranno mai del tutto, parliamo di etnie diversissime tra loro, con profonde differenze di matrice culturale e religiosa, che si ritrovano a vivere fianco a fianco. Tuttavia quanto accaduto negli anni 90 non può ripetersi, la situazione è radicalmente cambiata: Slovenia e Croazia sono entrate nell’Unione Europea, mentre Montenegro e Serbia sono paesi candidati a fare il loro ingresso. Hanno tutti capito che la strada della crescita passa per i fondi europei, come è accaduto per gli altri paesi ex comunisti dell’Est, e appianeranno le divisioni pur di accaparrarseli.” Una visione ottimistica, avvalorata anche dall’interesse da parte di Bruxelles ad espandere la propria sfera di influenza, insidiata nell’area da altri attori internazionali. “Si tende sempre a vedere i Balcani come il cuore nero d’Europa, ma il motivo per cui questa regione è così instabile è la lotta per l’egemonia tra le varie potenze. La Serbia è storicamente legata alla Russia ma anche alla Francia, la Bosnia è sostenuta dai paesi arabi, e la Cina prova ad inserirsi elargendo finanziamenti in cambio d’influenza geopolitica, come in Serbia e in Montenegro. L’Unione Europea ha tutto l’interesse a far entrare questi paesi, per affermare la propria egemonia e garantire la stabilità dell’intera area. Una situazione di cui gioverebbero tutti, e sono convinto si vada in questa direzione”. Anche la nostalgia per l’era Tito, il presidente comunista che ha governato la Jugoslavia dal 1945 fino alla sua morte nel 1980, sembra essersi affievolita: “La Jugostalgie (nostalgia della Jugoslavia) è puro folklore: non c’è nessun movimento politico che possa seriamente incidere in quel senso. D’altronde parliamo di un’epoca che non c’è più, quella della Guerra Fredda, con Tito che era stato molto abile ad accattivarsi le simpatie dei paesi occidentali che vedevano in lui, leader dei paesi non allineati, un argine all’Unione Sovietica, e lo sostenevano economicamente. Questo gli ha permesso di mantenere una macchina statale pachidermica, ma dopo la caduta del Muro di Berlino questo interesse venne meno, e con o senza Tito la Jugoslavia sarebbe crollata comunque”.

Il processo per l’integrazione europea si preannuncia ancora lungo, con il Montenegro che fin dall’indipendenza è sempre in mano allo stesso uomo, Milo Djukanovic, esponente della vecchia nomenclatura jugoslava accusato più volte di corruzione. Stesso discorso in Serbia, dove il presidente Aleksandar Vucic governa da dieci anni con metodi autoritari, protetto dagli oligarchi. “Ci sono tanti passi in avanti da fare, – continua Cepernich – i livelli di corruzione sono elevati e la libertà di stampa non è tutelata, come ogni democratura che si rispetti. Ma i toni nazionalistici di qualche anno fa stanno lasciando il passo alla voglia di Europa. Cittadini e politici hanno ben chiaro che è la strada giusta da percorrere, per fermare un declino altrimenti inevitabile, con i giovani più qualificati che fuggono all’estero in cerca di migliori opportunità, spesso proprio in paesi dell’Ue”.