Il suo nome è ovunque nelle ultime ore, ma di lui non si sa molto. Di Moussa Balde si conosce l’età, appena 22 anni, il paese d’origine, la Guinea, e si può ipotizzare che fosse giunto in Italia con la speranza di migliorare la propria vita. Era arrivato probabilmente all’inizio 2017 e si era stabilito a Imperia, in Liguria. Lì era stato accolto al Centro di solidarietà l’Ancora, dove gli educatori, che cercano di incentivare lo studio come mezzo di integrazione, lo avevano messo in contatto con il Centro provinciale per l’istruzione degli adulti di Imperia, tramite cui aveva deciso volontariamente di iscriversi a scuola. L’insegnante di italiano ci tiene a raccontare come la sua grafia fosse la più bella mai vista in dieci anni di lavoro, segno del suo impegno e della sua scolarizzazione.
“Ha sempre dimostrato una grandissima voglia di imparare la lingua, per comunicare con le persone, trovare un lavoro, vivere nella società. Era un pensiero costante, che l’ha spinto a fare tutto nei tempi e nei modi giusti”.
Aveva probabilmente già studiato in Guinea, e anche in una buona scuola. Con “un’invidiabile capacità di apprendimento”, ha intrapreso un corso di prima alfabetizzazione, poi di scuola media e infine si era iscritto al primo anno di superiori, che non ha mai concluso. Nel 2019 aveva, infatti, deciso di andare in Francia, dove vivevano alcuni amici o parenti, come lui francofoni. Dopo qualche mese all’estero, era stato però fermato e rispedito nel comune ligure. Spostatosi a Ventimiglia, dimorava ormai per strada e si sostentava chiedendo l’elemosina e rivolgendosi ai servizi della Caritas diocesana. “Più volte è venuto da noi per chiedere del cibo – racconta Christian Papini, responsabile regionale – ma è tutto quello che abbiamo potuto fare per lui. Non possiamo aiutarli, accoglierli, nemmeno dargli da dormire, hanno solo diritto all’urgenza.”
Le associazioni del territorio non conoscono davvero la sua storia. Maura Orengo, referente a Imperia di Libera – rete di associazioni che lavora per la tutela dei diritti e la giustizia sociale – spiega che “il ragazzo aveva il foglio di via, quindi era già in situazione di clandestinità e non si poteva rivolgere alle associazioni, che richiedono nome e generalità.” Senza passato e senza futuro, Moussa occupava i margini della società, delle vie e dei supermercati dove faceva l’elemosina.
Proprio in quella circostanza, il 9 maggio, era stato aggredito da alcuni cittadini di Ventimiglia, che lo avevano violentemente percosso con dei tubi. Alla denuncia, però, non è stata aggiunta l’aggravante razziale. I tre lo avevano accusato di tentato furto di un cellulare, ma a Moussa non era stata data la possibilità di replicare. Condotto all’ospedale di Bordighera per trauma facciale e lesioni, veniva dimesso il giorno successivo con una prognosi di dieci giorni e immediatamente trasportato al Centro di permanenza per il rimpatrio di Torino. Il ragazzo era infatti irregolare sul territorio italiano, anche se, tempo prima, aveva fatto domanda di asilo politico: “Sembra ci sia stato un problema nel momento in cui doveva presentarsi davanti alla commissione, per spiegare i motivi per cui richiedeva l’asilo. – dice il suo avvocato, Gianluca Vitali -. Era andato una prima volta ma, come spesso succede, solo un membro della commissione era disponibile a sentirlo. Lui ha quindi chiesto il rinvio, per essere ascoltato dall’intera composizione collegiale. Poi però ci sono stati dei problemi, non aveva più un posto dove stare e non era c’erano centri di accoglienza per ospitarlo. Probabilmente, quindi, era stato convocato ma è risultato irreperibile”. Così, senza conoscere la sua storia e senza aver ascoltato le ragioni che lo avevano spinto ad arrivare nel paese, la commissione aveva deciso per il rimpatrio. Ma a Moussa, che non frequentava più nessuna associazione ed era praticamente un fantasma, la comunicazione ufficiale è giunta una volta arrivato al Cpr. “Il passaggio dall’ospedale a Torino è avvenuto in brevissimo tempo, – dice Orengo – non c’è stato nemmeno il tempo di avvicinarlo subito dopo l’aggressione. Noi di Libera ci chiedevamo se avremmo potuto fare di più; avrei potuto segnalare a Torino la difficile situazione in cui questo ragazzo versava, ma non sapevo nemmeno che fosse lì.”
Dopo due settimane di isolamento, con la prospettiva di un prossimo rimpatrio, Moussa Balde si toglie la vita. Altri ragazzi, come lui reclusi all’interno del centro, alla notizia della morte hanno iniziato uno sciopero della fame e innescato diversi incendi nella struttura, per protestare contro le condizioni cui sono costretti.
Gli ultimi giorni
Emarginato, picchiato, isolato e respinto ancora una volta, il ragazzo era visibilmente provato. L’avvocato, che aveva conosciuto la sua storia leggendo la notizia dell’aggressione, scopre tramite una faticosa ricerca che la sua destinazione è il Cpr di Torino e lo raggiunge. Sin da subito non ha dubbi che gli addetti del centro fossero consapevoli delle sue difficoltà.
“Che ci fossero problemi di comportamento, di depressione, di tono dell’umore, quindi qualche problema psichico, – dice Vitali – credo fosse evidente a tutti. La prima volta che sono andato a trovarlo ho fatto il suo nome a un poliziotto e ho chiesto di vederlo. Quello mi ha subito risposto che il ragazzo aveva dei problemi e che non era detto che avrebbe accettato il colloquio.”
Nonostante le difficoltà, nessuno psicologo è mai andato a fargli visita, ma piuttosto, dopo qualche giorno, Moussa viene spostato nel cosiddetto “ospedaletto” del Cpr, una zona separata dal resto del centro. “Al suo arrivo non era sicuramente in isolamento, e questo conferma che la misura non è stata presa per motivi di sicurezza legati al Covid. Dovrebbe trattarsi di un isolamento sanitario, per tenere l’individuo sotto osservazione o separarlo dagli altri nel caso in cui questo si riveli contagioso. Il problema è che l’isolamento normativamente non esiste. È un’invenzione di alcuni centri. Si sostiene poi che il migrante possa chiedere di essere messo in isolamento, ma tenderei ad escludere che lui possa averlo fatto.”
Da giorni l’avvocato di Moussa aveva avviato un procedimento per richiedere l’annullamento del rimpatrio, facendo leva sul fatto che il ragazzo fosse la parte lesa di un procedimento penale, quello contro i suoi tre aggressori.
“Stavamo tentando di fare qualcosa, ma il processo è ovviamente lungo e macchinoso. Tutto il sistema è costruito in modo che il migrante clandestino sia il soggetto meno difendibile al mondo”.
“Stavo già preparando un ricorso al giudice di pace di Imperia, per chiedere di sentire Moussa come persona offesa ed eventualmente di disporre il rilascio di un permesso per motivi di giustizia, in attesa del procedimento. Tutti tentativi che avrei continuato a fare, ma non c’è stato più tempo.” L’unica cosa che può fare, adesso, è accompagnare i genitori nel lungo procedimento che hanno deciso di intraprendere, per capire cosa sia davvero successo a Imperia e Torino. La salma del ragazzo, intanto, viene preparata per tornare da loro in Guinea.
Strutture inesistenti
Arrivato in Italia con speranza, Moussa si è scontrato con alcune delle storture del paese, che la sua morte ha contribuito a mettere ancora una volta in luce. Chi giunge a Ventimiglia non trova, innanzitutto, adeguata assistenza. Le strutture di accoglienza sono poche ed esclusivamente in mano ad associazioni del territorio. E la situazione si complica ulteriormente per i migranti in transito verso la frontiera francese. Da quando lo scorso luglio è stato chiuso il capannone della Croce Rossa, non c’è alcuna struttura che accoglie per la notte le persone in cammino, stremate anche da anni di viaggio.
Le associazioni che lavorano sul territorio le assistono come possono, ma non sono sufficienti. E quando arriva l’estate – lo sa bene Christian Papini, che se ne occupa da anni – i flussi si moltiplicano e la situazione diventa ancora più ingestibile. “I numeri stanno aumentando in modo importante: da settembre a fine aprile, soltanto dalla Caritas sono passate più di 10mila persone. La scorsa settimana siamo arrivati a 220 persone in una mattina e siamo solo all’inizio, perché la rotta balcanica non è ancora completamente aperta.” E senza un’assistenza sufficiente, gli esiti possono facilmente diventare tragici. Lo testimonia la serie di eventi che riporta ciclicamente Ventimiglia sulle prime pagine, che dal 2015 ha visto la morte di migranti in autostrade, treni o nel passo della morte.
Per questo Papini parla di “cronaca di una morte annunciata”. Che un campo riapra, però, è quasi una certezza: “Storicamente i campi di transito vengono aperti quando c’è una grossa emergenza, quindi di solito si aspetta che succeda il casino. Quando si rendono conto che le persone non si possono fermare, allora si apre un campo. Almeno chi arriva ha un posto dove può mangiare, lavarsi e poi trovare passaggio per la frontiera; diventa tutto un po’ più semplice.” Ma quando qualcosa si fa, il peso è sempre sulle spalle del terzo settore e dei volontari. Come quelle di Don Rito Alvarez, da anni parroco a Ventimiglia, che nel 2016 insieme alle associazioni del territorio aveva creato il progetto del Confine solidale: “In un periodo di necessità abbiamo aperto la chiesa e fatto un’accoglienza straordinaria. Ci siamo messi in prima linea e in uno spazio non molto grande abbiamo dato da mangiare anche a mille persone al giorno. Le autorità del territorio pensavano non fossimo capaci di gestire la situazione: siamo riusciti talmente bene che alla fine ci hanno spinti a continuare. Adesso non c’è nulla, la situazione è molto triste. Si va avanti cercando di sistemare tutto con palliativi, ma quello che servirebbe è un centro per l’integrazione e per l’accoglienza che sia all’altezza delle necessità. Bisogna essere lungimiranti e coinvolgere anche il governo centrale, altrimenti tra cinque anni siamo di nuovo qui a dirci le stesse cose”.
Centri di reclusione
Dalle strade inospitali di Ventimiglia, Moussa è stato spostato poi tra le mura dell’ospedaletto del Cpr di Torino, che il report 2021 del garante nazionale Mauro Palma descrive come: “privo di ambienti comuni: le sistemazioni individuali sono caratterizzate da un piccolo spazio esterno antistante la stanza, coperto da una rete che acuisce il senso di segregazione. Tale area è normalmente utilizzata per ospitare persone da separare dal resto della popolazione trattenuta, per motivi di salute o di incompatibilità ambientale”.
Le indagini sul centro hanno inoltre rivelato che l’alta concentrazione di soggetti stranieri tossicodipendenti, con problemi psichici o comunque colpiti da forme di disagio sociale, non corrisponde ad un sufficiente coinvolgimento dei servizi sanitari locali. Una mancanza di raccordo con le altre strutture del territorio fa sì, inoltre, che il personale sanitario del centro rimanga completamente all’oscuro delle vicende cliniche delle persone trattenute. Queste possono poi rivolgersi direttamente agli operatori in caso di necessità, ma devono “attendere il passaggio di un operatore, nella speranza di ottenere la sua attenzione ed esprimere da dietro le sbarre del settore detentivo la propria istanza. Il Garante nazionale esprime il proprio fermo disappunto rispetto a una tale impostazione organizzativa, la quale, […] determina un contesto disumanizzante dove l’accesso ai diritti di cui le persone trattenute sono titolari passa attraverso la demarcazione fisica della relazione di potere tra il personale e lo straniero ristretto che versa in una situazione di inferiorità.” Il fatto che si tratti di una struttura chiusa, poi, com’erano i manicomi, fa già capire che “certe cose non le si vogliono far vedere. – dice Papini – Penso che se questo ragazzo avesse ricevuto supporto psicologico, forse, non si sarebbe suicidato, anche perché aveva già rischiato la vita per venire in Italia. E, dopo un’esistenza di stenti, si ritrova in un Cpr, dove gli comunicano che rimarrà rinchiuso fino al giorno del rimpatrio: c’è chiaramente un elevato rischio di suicidio. Si tratta di una delle tante vittime senza nome, di cui non frega niente a nessuno. Infatti lui è finito al Cpr, gli altri sono ancora per strada.”
Di Moussa, che era in Italia da oltre quattro anni, si sa ancora troppo poco. È una delle tante storie che risvegliano le coscienze per un giorno, poi si torna a dormire.