C’è una parentela tra i movimenti giovanili degli anni Sessanta e la gioventù dei giorni nostri. Un filo rosso che abbraccia due generazioni cresciute in condizioni diverse, ma con una preoccupazione comune: le sorti del mondo. In questa orbita ruotano la partecipazione o l’isolamento che si trovano al centro della nostra richiesta di storie personali.
Quando si decideva di non disertare
Erri De Luca, oggi scrittore e traduttore, appartiene ai giovani di ieri. Una massa che negli anni Sessanta popola le piazze e crede nella politica dal basso. Per lui, operaio e impegnato in Lotta Continua, quei movimenti “rivoluzionari” sono un ricordo ancora ben saldo. “Erano l’ordine del giorno del Secolo: il Novecento si è manifestato con la formula delle rivoluzioni, che ha permesso di cambiare la geografia politica del mondo. Hanno fatto cadere imperi coloniali e fatto nascere nuove nazioni indipendenti e libere”.
La società di quegli anni, per De Luca come per molti altri, era una comunità in lotta. Essere parte della collettività era il modo più autentico per appartenere al proprio tempo. Scendere in piazza era una necessità: “Mi trovavo questa gioventù intorno e non l’avevo suscitata io. Era già in mezzo alle strade, era discesa dal marciapiede e occupava il centro della carreggiata. Non mi sono trovato ad avere una scelta. L’alternativa sarebbe stata disertare, ma non mi è proprio passato per la testa”.
Non si poteva disertare allora, non si può disertare oggi. E i giovani, secondo De Luca, non lo stanno facendo. Fare un paragone con gli anni Sessanta non è possibile né corretto. La motivazione è anche numerica: nascere subito dopo la seconda guerra mondiale significava essere parte di una sovrabbondanza. “Eravamo tantissimi ed eravamo spinti dalla voglia di fare comunità dopo i lutti e dopo le perdite della guerra. Volevamo rinnovarci, moltiplicarci, riempire i vuoti. La nostra generazione abbassava di tanto l’età media dell’Italia ed era eccedente perfino rispetto al servizio militare obbligatorio: diversi contingenti non riuscivano ad assorbire tutti i giovani di leva di quel periodo”. Una generazione numerosa, e non solo: “Eravamo anche i primi acculturati a livello di massa”. Una combinazione “esplosiva”. I giovani di oggi, invece, sono una minoranza: “Voi vi dovete ritagliare una nicchia di esistenza in una società geriatrica. Ed è una nicchia da cui molti se ne sono andati: un milione e mezzo di voi è all’estero, siete ancora più decimati da questa emorragia di energie. Ma rispetto a noialtri, voi siete molto più esperti: studiate, imparate, accumulate sapere. Vi state occupando con sgomento delle sorti del mondo: accumulate competenze per cercare di sanare i guasti della società, di inventare una futura economia della riparazione e del risanamento”.
Un paragone possibile
Proprio la capacità di portare lo sguardo fuori dal proprio metro quadrato unisce due tempi diversi. Negli anni Sessanta quello che succedeva, ad esempio, nel sud est asiatico, riguardava tutti personalmente. “Non eravamo rivoluzionari perché eravamo passati dal condominio al mondo, ma perché dal mondo passavamo al condominio. E qui sta la parentela con voi: vi occupate prima di mondo e poi di voialtri”.
Se si chiede a De Luca quale sia il rapporto tra gli slanci degli anni Sessanta e alcuni dei mali del nostro tempo – disaffezione politica, incapacità di avere memoria, poca fiducia nelle Istituzioni – la risposta è che quegli ideali non appartengono alla classe dirigente: “Chi oggi sta al potere, allora stava alla finestra, era contro o si faceva i fatti suoi. Nessuno di noi è stato ammesso, tranne pochissimi che hanno dovuto rinnegare completamente se stessi per poter essere accettati. Siamo stati renitenti alla leva del potere”.
Ieri o oggi, la politica è quella si svolge “al piano terra della società” e non nella forma delegata delle elezioni o dell’appartenenza ad un partito. “Dove c’è una riunione di fibre disperse di comunità, di cittadini, per conservare o ottenere la libertà da un’oppressione, ecco, lì c’è partecipazione politica. Il formato della partecipazione è l’assemblea: il momento in cui un insieme di persone si unisce e prende decisioni, con un sistema di discussione e poi di votazione”.
Le conseguenze della pandemia
Una forma di politica, quella dell’assemblea, che in pandemia si è dovuta fermare. L’isolamento ha condizionato la partecipazione: “ha bloccato la politica dal punto di vista delle riunioni e delle manifestazioni, certo. Ma non blocca la politica degli altri, quella del personale delegato dagli elettori. Continua poi ad esistere a livello di base, grazie alle comunità che non hanno smesso di darsi da fare”. L’esempio è quello dei tanti volontari che negli scorsi mesi si sono messi a servizio dei più fragili. Proprio con la pandemia, gli italiani si sono mostrati sotto una luce inaspettata: “Abbiamo scoperto che l’Italia è diventato un paese con una forte coscienza civica. Avrei escluso che ci potesse essere una una risposta civica all’emergenza: siamo individualisti, quando c’è una regola la prima cosa è pensare come aggirarla, per comodità o per spirito di indipendenza. Invece ho assistito a un Paese che non ha subito le misure di contenimento, ma le ha adottate. Quindi le ha rispettate anche se costavano caro, salvo pochissime eccezioni. Credo che questo sia successo perché per la prima volta un governo si è occupato così della salute dei cittadini. Si tratta di una conversione: passare dal primato dell’economia al primato della salute”.
Il potere delle parole
C’è un altro aspetto del presente su cui Erri De Luca non usa mezzi termini: le parole. In questi mesi si sono moltiplicate, sui giornali e alla televisione. Spesso sono urlate e poco gentili. Ci sono quelle che vengono vendute come politiche, che si sentono nei dibattiti tra rappresentanti delle Istituzioni. Ma spesso sono “battibecchi che non hanno alcuna dignità di argomentazione politica”. Ci sono invece parole che hanno un potere diverso e richiamano alla responsabilità di ognuno: “C’è una frase del Talmud che dice così: finché le parole sono nella tua bocca tu sei il loro padrone. Quando escono dalla tua bocca tu sei il loro servo. Le parole comportano conseguenze. Voi potete usare parole che comportino conseguenze, che non vengano smentite il giorno dopo”.