Un pallone per esorcizzare l’incubo della guerra. Continuare a tifare nonostante le bombe. Nei due conflitti mondiali il calcio preserva un’insopprimibile voglia di vivere, un sottile legame con una normalità sconvolta dalle due guerre. A Torino si racconta la società italiana tra i due conflitti mondiali anche attraverso lo sport più amato.
Lo fanno gli storici Aldo Agosti e Giovanni De Luna, autori di “Juventus. Storia di una passione italiana”, ospiti nel pomeriggio di oggi 20 aprile di uno degli appuntamenti promossi dal Polo del ‘900 con Istoreto e Unione culturale “Franco Antonicelli” in vista della festa della Liberazione.
“Sperimentammo la fame, il freddo, la paura, la convivenza con la morte. Ma la voglia di vivere c’era ed emergeva dal calcio”, ha spiegato Giovanni De Luna. “Il calcio – ha aggiunto – è una grande risorsa storica perché riesce a rispecchiare la mentalità del tempo e i mutamenti più profondi della società”. Lo sport diventa comunità, condivisione. Lo dimostrano le lettere dei tifosi juventini, costretti al fronte durante la prima guerra mondiale, pubblicate dal bollettino sportivo Hurrà. Uno sport che solo dagli anni ’30 avrebbe pervaso la società, ma che già tra il 1915 e il 1918 intratteneva i soldati ventenni in partite improvvisate.
Un’occasione di evasione anche negli anni più duri del secondo conflitto. “Il 10 giugno del 1940 – racconta ancora De Luna – Mussolini annuncia l’entrata in guerra mentre il giorno prima si era disputata la semifinale di Coppa Italia”. E così l’anno seguente: il calcio restava fuori dalla guerra nonostante i tentativi di propaganda fascista: “Per tutto il 1941 – aggiunge lo storico – gli incassi del campionato di Serie A rimasero uguali a prima”.
Ma dal ’42 svanisce la speranza che quella sarebbe stata una guerra lampo. I bombardamenti mettono in ginocchio l’Italia e le partite diventano simbolo di opposizione al regime, anticipando gli scioperi operai del ’43. Il campionato si ferma, ma in giro per tutto il paese si organizzano partite. Gli italiani non rinunciano neanche allora al calcio. “Continuarono ad esserci tornei organizzati dai bar con premi come prosciutti o generi di prima necessità – racconta Aldo Agosti – Questo dimostra come il calcio, in quei 25 anni che separano una guerra dall’altra, avesse colonizzato in modo pervasivo la società, diventando qualcosa di quasi insopprimibile”.
E come accompagnasse anche i momenti più tragici di quegli anni. Mentre il 13 gennaio del 1944 dalla stazione di Torino Porta Nuova parte il primo treno verso Mauthausen, viene intercettato un mezzo con a carico giocatori pronti a disputare una partita. Un anno dopo, invece, il 10 maggio 1945 il calcio ripartì con circa 10mila spettatori sugli spalti dello stadio comunale ad assistere all’incontro tra il Torino e una squadra di militari sudafricani. La guerra era finita.