Sul tavolo di Mario di Draghi i giovani ci sono: sono citati nei dossier. Ma intorno a quel tavolo non si possono ancora sedere. La pandemia ha messo in luce un problema che da anni stagna fra le pieghe della società italiana: una forma di ingiustizia generazionale. E così 250mila giovani negli ultimi 10 anni scelgono di fuggire dall’Italia, perché entro i confini non sussistono le condizioni di esistenza per sopravvivere, per poterlo fare bene.
“Quando è uscita la bozza del Recovery, si è visto che solo l’1% dei 210 miliardi sarebbe stato destinato ai giovani. 210 miliardi in prestito, che proprio quei giovani dovranno restituire in futuro”, racconta Anass Hanafi, studente di giurisprudenza all’Università di Torino e membro della community dei Global shapers. Ancora ai margini di un piano politico che non li vuole ascoltare, relegati nell’1%, quello che non basta. E diventa lo slogan del movimento apartitico portato avanti da Visionary Days da Officine, che attraverso una campagna social e una petizione chiedono più fondi per i giovani. Le proposte che presentano sono tre: facilitare l’inserimento nel mondo del lavoro per 800 mila giovani attraverso il rinnovamento di Garanzia Giovani, inserire 300 mila ragazzi in percorsi di formazione qualificati su trasformazione digitale e transazione energetico-ambientale, e sostenere 350 mila giovani in percorsi di reinserimento lavorativo tramite apprendistati e percorsi di istruzione e formazione. Chiedono di lavorare, di essere invitati a quel tavolo per far sentire anche le loro voci. “Per cambiare bisogna includere i giovani, è necessario quindi investire su di loro” continua Anass Hanafi. Si, perché questo perverso meccanismo di esclusione rivela l’altro profilo brutto di una società che schiaccia l’identità dei giovani sotto il peso dei pregiudizi generazionali. E così spogliati dalla credibilità professionale si trasformato in un finanziamento a fondo perduto. Un progetto sul quale non vale la pena investire. “Se non si scommette sui giovani va a crearsi un circolo vizioso. Le richieste del movimento Uno non basta, di stanziare non l’1%, ma 20 miliardi sono valide, proprio per cambiare una tendenza che è onerosa”. La domanda da porsi non è quanto costa investire sui giovani, ma quanto costa non farlo. “L’investimento sull’istruzione di un giovane in Italia tra scuola primaria e secondaria è di circa 5000/6000 euro all’anno. Negli ultimi 10 anni il nostro Paese ha perso circa 16 miliardi investiti in quei giovani che decidono di emigrare all’estero perché non trovano in Italia le condizioni per restare”. La fuga trascina a un generale impoverimento. Non solo la spesa sostenuta per istruire chi sceglie di emigrare, ma anche la perdita di gettito da imposte e contributi sociali che i giovani avrebbero pagato se fossero rimasti entro i confini. “I meccanismi collaterali sono quelli di uno spopolamento e di una carenza energetica del paese. Il che comporta scarsa innovazione e un’attrattività ridotta rispetto alle potenzialità dell’Italia”. Un fenomeno che viene descritto nel Rapporto 2019 sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa. Un sistema che fatica ad inserire i giovani in una progettualità e si traduce in dati scoraggianti. “Siamo i primi in Europa per abbandono scolastico con il 14,5%, è un dato grave. Un giovane su tre è un Neet, ovvero né studia né lavora, e un terzo delle aziende italiane fatica ad assumere giovani. Formazione e lavoro sono binari paralleli che faticano a convergere e comunicare”. L’esodo silenzioso comporta una perdita di conoscenze e potenzialità che danneggiano la prospettiva di crescita futura. Un paese anagraficamente squilibrato, incapace di attrarre investimenti esterni, che rigetta i rischi, marcendo in uno status quo zoppicante. L’arrivo di Draghi potrebbe suggerire un cambio di rotta. L’ex presidente della Bce rappresenta infatti quei nuovi filoni dell’economia che legano istruzione e sviluppo puntando sul capitale umano. “Ai giovani bisogna dare di più” sono le parole di Draghi durante il Meeting di Rimini.
Già ad agosto insisteva infatti sull’importanza di investire sui giovani, e, attingendo alla matrice keynesiana, distingueva fra debito “buono” e debito “cattivo”. Questo fa ben sperare gli under 30 e coloro che sono pronti a diventare nuova classe dirigenza. Come rimodellare gli spazi del sistema giovani è la sfida. “Sarebbero utili consulte giovanili sul territorio nazionale, un po’ seguendo il modello svizzero che ho sperimentano durante il primo Erasmus. Creare luoghi fisici e virtuali dove alimentare le fucine di idee. Proporre un piano di investimenti attrattivo, per favorire il rientro dei giovani italiani che sono emigrati all’estero. È inoltre importante scommettere sulla ricerca, partendo dalle eccellenze territoriali, penso a Torino con il settore spaziale. La formazione ha un ruolo centrale in questo processo. Cruciale è infatti sia l’inserimento nel mondo lavorativo, sia disincentivare l’abbandono scolastico. Tutto questo può essere reale se si instaura un ponte generazionale, un passaggio di testimone, perché il giovane cammina più veloce dell’anziano, ma l’anziano conosce la strada”, conclude Anass Hanafi.
Un investimento non solo economico, ma che da lì parte per costruire un sistema di collaborazione che va a rompere lo stato di emarginazione e sottostima delle nuove generazioni. I giovani non possono puntare al ribasso. Non sprecare la crisi, interrompere una cancrena che da anni paralizza il nostro Paese: sono queste le richieste dei giovani. Diventare attori attivi per non rimanere incastrati ancora una volta in prospettive sterili. Ci si aspetta di più dal Recovery Plan. Che poi, in realtà, si dovrebbe chiamare Next Generation UE ed è dedicato, proprio, alla prossima generazione di Europei.