Al confine tra Italia e Francia, tra l’alta val Maurienne, la val Cenischia e la valle di Susa, incastonato tra montagne imponenti, si staglia il lago del Moncenisio. Un invaso artificiale che sembra quasi un piccolo “mare”, dalla portata di 320 milioni di metri cubi di acqua situato a circa 2000 metri di altitudine in val Cenischia. Questo impianto imponente, costruito nel 1968, da oltre 50 anni veglia sulla vita della valle sottostante.
Dighe e sbarramenti, grazie ai molti utilizzi della loro acqua potabile, ma anche per il loro uso irriguo e idroelettrico hanno un ruolo economico, sociale e ambientale molto importante per i territori transfrontalieri montani. L’obiettivo generale del progetto Resba è quello di approfondire la conoscenza dei rischi legati alla presenza delle dighe sui territori, al fine di migliorare la comunicazione con amministrazioni locali e cittadini, la gestione della sicurezza e aumentare la resilienza del territorio.
Ma la resilienza si costruisce anche e soprattutto attraverso la conoscenza dei luoghi, ascoltando e raccontando le storie dei loro abitanti. Testimoni spesso inconsapevoli del cambiamento dell’ambiente circostante.
I bisnonni paterni sono stati i primi guardiani delle dighe costruite negli anni ’20 del ‘900 al Moncenisio. Il bisnonno materno invece un pioniere della fotografia che era stato scelto per testimoniare i lavori idraulici eseguiti dalla Sip (società idraulica piemontese) proprio su quel valico allora ancora italiano e situato poco prima del confine francese. Per questo Fabrizio Arietti, 46 anni, con il Moncenisio ha un rapporto speciale. Un legame che l’ha portato negli anni a scrivere ben tre libri ambientati nelle aree intorno al colle. Tra questi “Vivevamo al Moncenisio”, una raccolta di storie di vita di persone che su quel territorio sono passate, hanno lottato con il freddo e con la solitudine, hanno combattuto durante le guerre, hanno lavorato nelle dighe e poi sono dovute andare via, quando buona parte del centro abitato, con la costruzione della grande diga degli anni ’60, è stato sepolto per sempre. “Avevo una grande curiosità, dettata anche dalla storia della mia famiglia, nel capire che cosa succedesse in quei luoghi prima degli anni ‘60” racconta Arietti. Ed è proprio lui, grazie alle storie che ha ascoltato, a raccontare ora a noi com’era il Moncenisio prima della costruzione della nuova diga. Chi erano i suoi abitanti e come vivevano in quell’angolo remoto di mondo crocevia di eventi storici e culturali di cui, secondo Arietti, “ancora oggi è molto facile innamorarsi”.
Fabrizio Arietti nasce a Susa in provincia di Torino il 9 giugno 1967. Vive a Meana di Susa e lavora al Manufacturing di Fiat Auto. È da sempre appassionato del territorio del Moncenisio, su cui ha scritto ben tre libri. Il primo in ordine di tempo è “Vivevamo al Moncenisio”, del 2010, una raccolta di foto d’epoca e di storie di persone che hanno vissuto nei primi anni del ‘900 proprio sul colle ora francese. Nel 2014 invece ha scritto “Moncenisio 1933-1960. Memorie e cronache di confine” in cui ha voluto invece raccogliere i racconti di guerra ambientati al colle. Infine nel 2016 ha pubblicato il romanzo “Profumo di resina. 100 anni di Moncenisio”, da cui è anche stato tratto un film, omonimo, diretto dal regista Luigi Cantore.
I luoghi storici e simbolici che caratterizzano il territorio del Moncenisio e che sono anche rappresentati sulla mappa sono principalmente tre: la piana di San Nicolao, la centrale della Gran Scala e il villaggio della Gran Croce.
La piana di San Nicolao, a quota 1711 metri, è un rettilineo lungo circa 1 km situato poco prima che comincino i diversi tornanti che portano alla Gran Croce, ora frazione di Val-Cenis, nella val Cenischia francese, a 1880 metri di altitudine. La Gran Croce è l’unico centro che è rimasto fuori dalle acque dopo la costruzione della diga degli anni ’60. Le sue case e i suoi edifici sono però completamente distrutti. La frazione si trova a circa 2 km dalle tre vecchie dighe, la cui costruzione è terminata nel 1923. Alla Gran Croce si trovava la stazione pompe.
La struttura della centrale della Gran Scala invece è collocata sul rettilineo della piana di San Nicolao, prima dei tornanti, a circa 1870 metri di altitudine.
Le acque delle vecchie dighe degli anni ’20 partivano dalla centrale della Gran Scala e raggiungevano lo sbarramento della piana di San Nicolao. Da qui, con un salto di 1097 metri, arrivavano alla centrale idroelettrica di Venaus, comune della città metropolitana di Torino, a 604 metri di altitudine.
Il Moncenisio è stato da sempre un crocevia di persone e culture diverse. Tra gli anni ’20 e gli anni ’60 del secolo scorso i suoi abitanti sono stati i pastori, gli allevatori, i guardiani delle dighe, i soldati che hanno combattuto nelle guerre. I centri abitati del territorio intorno al colle in quegli anni erano però anche un luogo di sosta per i turisti che viaggiavano tra Francia e Italia. Testimonianza di questo dato sono i numerosi ristoranti che si trovavano nel paese e soprattutto nella frazione della Gran Croce, come il Ristorante della Posta.
“I guardiani delle vecchie dighe vivevano in solitudine. In certi periodi d’inverno erano i soli abitanti del Moncenisio” racconta Arietti. La casa dei guardiani si trovava alla base della diga Numero 1, una delle tre costruite negli anni ‘20. Lì vissero i diversi guardiani che tra il 1922 e il 1964 si occuparono di controllare la temperatura delle acque delle dighe, ma anche l’altezza delle nevi in alcuni punti. I dati raccolti venivano poi trasmessi alla Sip (diventata in seguito Enel) di Roma. I guardiani vivevano in casa solo con la loro famiglia, composta da moglie e figli. Il primo guardiano in assoluto fu Vincenzo Clapero, bisnonno di Arietti, che svolse l’incarico dal 1922 al 1937. A lui succedette il figlio Ferdinando Clapero, che fu guardiano dal 1937 al 1962. L’ultimo ad occuparsi della controllo delle strutture idrauliche prima della costruzione della diga degli anni ‘60 fu Sergio Vayr, che svolse l’incarico per un solo anno, tra il 1963 e il 1964. Proprio nel ’64 infatti cominciarono i lavori per la nuova grande diga del Moncenisio. Lui allora decise di tornare a valle.
Nel 1964 iniziò la costruzione della nuova grande diga del Moncenisio, che entrò ufficialmente in funzione nel 1969. Le poche persone che vivevano ancora sul territorio attorno al colle si trasferirono in altri luoghi. La maggior parte scese a valle. La distanza fisica obbligata però, secondo Arietti, non ha cambiato il legame dei vecchi residenti con il loro luogo d’origine. “Il loro rapporto, nel tempo, dalle storie che ho ascoltato, si è fortificato” racconta Arietti.
Il Moncenisio fu anche teatro della Seconda Guerra Mondiale. Furono molti gli italiani che combatterono proprio sul colle poi passato in mano ai francesi. La storia che però ha colpito in modo particolare Arietti e che quest’ultimo racconta nel suo libro si situa in un preciso contesto storico. Era l’8 settembre del 1943. L’Italia proclamava la resa incondizionata agli alleati con l’armistizio di Cassibile. Il generale Badoglio diede all’esercito italiano l’ordine di arrendersi, ma i soldati sul Moncenisio non sapevano che cosa fare. Rimasero senza direttive. “I più vicini al fascismo scelsero di combattere insieme alla Germania, gli altri invece decisero di scappare” commenta Arietti. Tra coloro che presero quest’ultima decisione ci fu Guido Agagliati, classe 1921. “Il mio obiettivo dopo l’armistizio era quello di tornare dai miei genitori a Chieri” racconta l’uomo nel libro curato da Arietti. Agagliati allora si liberò della divisa e riuscì a tornare nella sua città d’origine, in provincia di Torino.
Nel 1947, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, con il trattato di Parigi il territorio del Moncenisio passò dall’Italia alla Francia. L’italiano Comune di Moncenisio, dal punto di vista amministrativo, si ridusse a un lembo di territorio intorno alla frazione di Ferrera Cenisio. “Fu in quel momento che si videro le prime rivolte degli abitanti” racconta Arietti. Claudio Piasenza, figlio del tenente Guido Piasenza, appartenente al primo Reggimento Artiglieria Alpina, a quell’epoca era un bambino. Ma ricorda bene, e lo racconta ad Arietti, come suo padre provasse “un forte disagio” quando, tornato al Moncenisio, “dovette presentare i documenti alla frontiera francese”. Quelle, infatti, “erano le sue montagne”.
Verde incontaminato e un silenzio rotto solamente dalle campane al collo delle mucche al pascolo. Partendo dal Moncenisio e costeggiando il lago, si arriva al Colle del Piccolo Moncenisio. A circa otto chilometri dalla strada statale che porta a Lanslebourg, c’è l’alpeggio Listello: un paradiso di prati fioriti, altipiani, marmotte e tante mucche al pascolo. Si trova nel valico delle Alpi Cozie divenuto francese in seguito alle rettifiche di confine del lontano 1947 ed è situato sullo spartiacque tra le Val di Susa e l’alta Maurienne. Una stradina sterrata che svolta a destra porta ad un casolare dove la famiglia di Luca, 21 anni, lavora da più di trent’anni. “Faccio questo mestiere da quando sono nato, o almeno da quando me lo ricordo”. I Listello salgono ogni anno intorno a metà giugno e rimangono su fino ai primi di ottobre, ma capita che si torni a casa prima, intorno agli ultimi giorni di settembre. Luca si occupa principalmente delle mucche: “Mi alzo al mattino presto, intorno alle 5, e riunisco nella stalla quelle che pascolano nei prati per mungerle. Poi verso le 9 le rimetto fuori, all’aria aperta, e intanto pulisco la stalla: ad accudire le mucche, durante il giorno, ci pensa mio nonno. Io vado a controllare anche le manze: sono le più giovani, sotto i tre anni. Stanno da sole, lontano da quelle più anziane, e poi andranno a sostituirle dopo aver partorito. Io porto loro il sale, necessario per arricchire il mangime, e sposto il filo che delimita la loro zona. La sera torno a mungere”.
Da quando raggiunge l’alpeggio, la famiglia Listello scende solo se strettamente necessario e a seconda delle esigenze: per fare la spesa, una volta a settimana, ci pensano Luca, la mamma o il nonno. La famiglia possiede un locale per la caseificazione ed è la mamma ad occuparsi dei formaggi e del burro: “Una parte la vendiamo ai turisti e alla gente di passaggio, il resto lo acquista il grossista” spiega Luca. La zona è famosa per i prodotti tipici del territorio, come il formaggio Beaufort e il Blu di Bonneval. Il lavoro della famiglia Listello è fatto di fatica, impegno e tanta dedizione: “Ci sono molte cose che variano per esempio dal lavorare in un ufficio: prima di tutto se stai al chiuso sei sempre al caldo e non prendi mai la pioggia, mentre se lavori all’aria aperta ti devi adattare al tempo atmosferico, ai diluvi, al sole che spacca le pietre. Devi prendere la natura così com’è. Se non c’è la passione dietro, questo mestiere non lo fai” racconta Luca.
L’alpeggio non è di proprietà della sua famiglia, i Listello lo affittano da altri italiani. Nella loro zona c’è anche l’alpage Favre, insieme a molti altri alpeggi francesi. Luca e la sua famiglia conoscono tutti lì intorno: la maggior parte ha il bestiame da guardare, fa il loro stesso lavoro. Si va d’accordo, ci si dà una mano se c’è bisogno: “Noi abbiamo i nostri terreni dove pascolare e così anche loro: finché non ci si pesta i piedi non c’è nulla da dire”. Al di fuori degli agricoltori, intorno al lago del Moncenisio ci sono solo bar e ristoranti. Il resto è tutta natura che si riflette in un lago blu cobalto.
Alla fine degli anni ’50 Clemente Campagnoni, originario di Giaglione e dipendente Sip (la Società Idraulica Piemontese antenata dell’Enel), ottenne il lavoro di guardiano alla piana di San Nicolao. Era il primo dei tre sbarramenti della diga del Moncenisio, esistenti fino al 1964. Percorse una ventina di chilometri con la moglie Rosina Miaglia e la figlia Faustina e si trasferì a vivere lì, insieme a una decina di altre famiglie di operai.
La signora Rosina oggi ha quasi 94 anni e ricorda ancora bene quando la domenica, per dare un giorno di riposo a suo marito, lo sostituiva lei per il controllo della quota dell’invaso di San Nicolao e per le comunicazioni con la centrale. Una vita faticosa, in cui rifornirsi di cibo e beni necessari richiedeva di camminare per chilometri (in inverno calzando gli sci) per raggiungere il casello dove tre giorni alla settimana le ordinazioni arrivavano con la corriera da Susa.
Faustina, allora adolescente, non frequentava la scuola per i più piccoli alla centrale, tenuta da una maestra assunta dalla Sip. Al Moncenisio ha trascorso le festività e le estati fino a quando suo padre, colpito da una polmonite, non è stato costretto a scendere a valle per ricevere le cure. Chiesto il trasferimento alla vicina centrale di Mompantero, la famiglia è tornata a Giaglione, dove vivono Faustina e la madre.
La diga e il Moncenisio sono rimasti luoghi familiari, anche ora che si presentano diversi rispetto a cinquant’anni fa. Faustina ha rivisto quel che resta degli edifici della piana finiti sommersi con l’allargamento di fine anni ’60 nel 2016, in occasione dell’ultimo svuotamento del lago artificiale. Un’operazione che avviene per ragioni di manutenzione e rassicura dai rischi intrinseci alla diga: nel peggiore degli scenari, un’inondazione travolgerebbe la Val Cenischia e la Val Susa fino a Torino, con danni collaterali anche a Giaglione. Un pensiero lontano, riconosce Faustina: per lei e la sua famiglia la diga del Moncenisio resta un posto del cuore. Difficile immaginarlo come qualcosa di diverso.
Sono state analizzate alcune delle frasi che affermazioni che spesso si associano alle dighe per verificarne la veridicità grazie alla consulenza di Furio Dutto, ex dirigente Servizio Protezione Civile, geologo ex Cnr con esperienza sui rischi naturali.
L’esperienza con la pandemia del coronavirus ha dimostrato come ipotesi che possono sembrare remote, ad esempio la propagazione di un agente patogeno con conseguenze drammatiche a livello mondiale, siano in realtà da prendere sul serio. Ipotizzare i rischi, dai più concreti a quelli che potrebbero apparire remoti, è quanto gli Stati e gli enti locali fanno quando predispongono i piani di emergenza per i territori, per essere preparati a intervenire in modo efficace e tempestivo qualora si presenti la necessità: in questo modo, anziché interrogarsi sul da farsi con un un evento avverso già in corso, una volta che questo si verifica è sufficiente seguire procedure chiare e condivise. Il punto di partenza per comprendere la complessità della disciplina è che nel nostro Paese la protezione civile non è un compito assegnato a una singola amministrazione: è invece una funzione attribuita a un sistema complesso, il “Servizio Nazionale della protezione civile”, coordinato dal Dipartimento della protezione civile, istituito con la Legge n. 225 del 1992 e oggi regolamentato secondo il nuovo Codice della protezione civile (D. Lgs. n. 1 del 2 gennaio 2018).
La gestione delle dighe è stata normata a livello nazionale con la Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri (Dpcm) 8 luglio 2014, recante Indirizzi operativi inerenti l’attività di protezione civile nell’ambito dei bacini in cui siano presenti grandi dighe, nota agli operatori come “Direttiva dighe”, che si applica si applica alle dighe che superano i 15 metri di altezza o che determinano un volume d’invaso superiore a 1.000.000 di metri cubi: la diga del Moncenisio è tra queste. La direttiva disciplina, per le fasi di allerta, le comunicazioni tra i soggetti coinvolti, senza scendere nel dettaglio delle azioni da intraprendere a tutela della pubblica incolumità.
Tocca alla Regione, in accordo con le Prefetture e gli Uffici Tecnici Dighe del territorio, predisporre e approvare un Piano di Emergenza su base regionale (Ped), per contrastare i pericoli legati alla propagazione di un’onda di piena causata da manovre degli organi di scarico o dall’ipotetico collasso dello sbarramento. Il quadro di riferimento per la redazione del piano regionale è costituito dal Documento di Protezione Civile (Dpc), insieme agli studi sulla propagazione delle piene artificiali sulle aree che possono essere interessate. A loro volta, i Comuni potenzialmente coinvolti prevedono nel proprio Piano di emergenza comunale o intercomunale – con il supporto della prefettura, della Provincia e della Regione – una sezione dedicata alle specifiche misure di allertamento, diramazione dell’allarme, informazione, primo soccorso e assistenza alla popolazione esposta all’onda di piena. Le iniziative di informazione alla cittadinanza riguardano sia il rischio che le norme di comportamento da seguire prima, durante e dopo l’evento.
Per quanto riguarda la diga del Moncenisio, che si trova in territorio francese, a circa 2100 metri dal confine italiano, sono 66 i comuni piemontesi che potrebbero essere coinvolti dall’onda di piena per crollo, per un totale di oltre 1.270.000 di residenti. Le persone che sarebbero effettivamente coinvolte dall’allagamento sono oltre 311.000. Il piano è predisposto dalla Regione Piemonte: per ora è stata approvata la catena degli allentamenti, mentre la parte gestionale e operativa è attualmente in bozza. L’intera documentazione è consultabile sul sito della Città Metropolitana nell’area dedicata al Progetto Resba.
La Regione Piemonte, per prima in Italia, sta lavorando a un nuovo piano in ottemperanza alla direttiva europea nota come “direttiva Seveso” (direttiva europea 82/501/CEE, recepita in Italia con il DPR 17 maggio 1988, n. 175 nella sua prima versione), che impone agli stati membri dell’Unione di identificare i propri siti a rischio. Il documento sarà condiviso con la prefettura e gli enti territoriali, nell’ottica di una precisa ed efficace suddivisione dei compiti di allerta e intervento nelle emergenze. Nel caso della diga del Moncenisio, sarà necessario allineare la procedura francese con quella italiana: in concreto, per esempio la Francia prevede sette fasi di allerta contro le tre (gialla, arancione e rossa) del nostro Paese. L’aspetto fondamentale è proprio quello dell’integrazione: sarà fondamentale che i piani locali dei comuni siano armonizzati con i livelli nazionali.
Futura è il periodico del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” all’Università di TorinoRegistrazione Tribunale di Torino Numero 5825 del 9/12/2004 Testata di proprietà del Corep
Direttore Responsabile: Marco Ferrando
Segreteria di redazione: Sabrina Roglio
La Redazione che ha realizzato questo speciale è composta da: Nadia Boffa (audio e interviste Arietti), Federico Casanova, Roberta Lancellotti, Riccardo Liguori (Fact Checking), Chiara Manetti (Intervista al ragazzo dell’alpeggio), Vincenzo Nasto, Luca Parena (video e interviste alla famiglia Campagnoni), Riccardo Pieroni, Adriana Riccomagno (Approfondimento istituzionale), Francesca Sorrentino (Introduzione), Martina Stefanoni, Nicola Teofilo (Fact Checking), Jacopo Tomatis, Valeria Tuberosi.