Venti notizie, una domanda: vero o falso? È online il sito Fake News Lab, un gioco per mettersi alla prova come “cacciatori di bufale” ma soprattutto un modo per aiutare la ricerca: più dati saranno a disposizione, maggiore sarà l’accuratezza dei risultati. Il progetto è nato all’Università di Torino con l’obiettivo di capire quali fattori ci guidino nel reputare una notizia vera o falsa: un tema, quello delle fake news, tanto importante che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) ha appena dato il via all’istituzione di un’apposita commissione.
In che cosa consiste il progetto di ricerca lo spiega Giancarlo Ruffo, professore di Informatica e supervisore del gruppo di studio di cui fanno parte informatici, matematici, fisici e sociologi.
Quando e come è nato il vostro interesse per il tema delle fake news?
“Dal 2015 ci occupiamo di fake news e di come si diffondono in rete, in particolare nei contatti social che ora rappresentano una grossa fetta della comunicazione a livello mondiale. Abbiamo iniziato in un momento in cui il termine fake news non era ancora così modaiolo: le chiamavamo, in maniera un po’ romantica, bufale. L’espressione fake news si è diffusa con eventi come la Brexit e le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, che hanno fatto emergere come le notizie false possano aiutare a manipolare l’opinione pubblica, e la definizione è diventata più popolare e pervasiva”.
Le fake news sono un fenomeno recente?
“Non è affatto qualcosa di nuovo. Di notizie false sono pieni anche i libri di storia. Un esempio è l’idea della terra piatta: si sente dire che nel Medioevo si pensava che la terra fosse piatta, ma invece che la terra fosse rotonda si sapeva da tempi antichissimi. Il discorso della terra piatta è rimasto come credenza collettiva.
Oggi cambia la velocità con cui la notizia può raggiungere facilmente una persona che vive in un Paese a migliaia di chilometri di distanza da dove è partita: in un batter di clic. Questo probabilmente è un fatto nuovo, come anche la cassa di risonanza che può avere una fake news: si introduce in comunità e gruppi sociali che la amplificano e creano massa critica, non solo condividendone il messaggio ma anche decidendo di credere a quella posizione”.
Come funziona il meccanismo della diffusione di fake news?
“All’inizio ci siamo domandati se il modo in cui si diffonde una bufala somigliasse a quello di un virus. Un tema diventato di triste attualità quest’anno, ma l’ipotesi di una pandemia nel 2015 non era così presente nel dibattito pubblico. A caratterizzare la diffusione di un virus oggi rispetto al passato è la velocità mostruosa con cui si trasmette da una nazione all’altra, e la possibilità che una volta entrata in gruppo sociale coeso si diffonda velocemente. Siamo quindi partiti da modelli di studio delle bufale che prendono ispirazione dai quelli epidemiologici. Ci siamo anche confrontati con altri ricercatori e ci siamo presto arenati sui risultati pessimistici nelle nostre simulazioni: la bufala sembrava avere la meglio quasi sempre e le condizioni con cui poteva essere cancellata dal fact checking sono molto remote. Non ritenevamo fossero realistiche: ad esempio è molto difficile che il 20% della popolazione faccia una verifica prima di condividere una notizia”.
Come avete superato l’impasse?
“Abbiamo cercato di guardare il problema da diverse angolazioni. Ci siamo ricordati di uno studio realizzato una decina di anni fa da alcuni sociologi americani tra cui Duncan Watts, che hanno analizzato le dinamiche del successo in musica. Hanno creato un laboratorio virtuale dove era possibile per gli utenti ascoltare pezzi nuovi, non di gruppi famosi, e decidere di scaricarne solo alcuni dopo l’ascolto; a quel tempo poter ascoltare un brano costituiva un valore maggiore rispetto ad adesso.
L’idea geniale era stata di proporre le stesse canzoni ma fornendo ad alcuni informazioni diverse. A alcuni utenti i brani erano presentati in modo casuale, mentre ad altri era fornita l’indicazione se la canzone fosse piaciuta al 60, 70 o al 30% di chi l’aveva ascoltata. L’obiettivo era capire se il successo potesse essere determinato in parte dall’influenza sociale.
I risultati furono assai divertenti. Una fetta di canzoni è talmente scarsa da non avere speranza in qualsiasi modo, come anche quelle davvero molto buone, indipendentemente dalle condizioni, sono considerate belle. Il punto cruciale è la via di mezzo: le canzoni non bellissime ma neanche pessime. Lì quando venivano messe le percentuali del gradimento le cose cambiavano totalmente. L’influenza sociale è determinante per i pezzi intermedi”.
Cosa ha comportato questo caso studio rispetto al vostro progetto?
“La domanda di partenza per noi è: se nessuno dei miei amici ci crede, è possibile che non mi faccia influenzare, indipendentemente dalle informazioni che ricevo? Ogni utente che accede al sito troverà una notizia corredata da alcune condizioni che potrebbero influenzarlo in una direzione o nell’altra: la testata giornalistica che le ha pubblicate, un’indicazione geografica o altro ancora. Vedremo cosa succederà quando avremo ricevuto un numero sufficiente di risposte e faremo un’analisi dei risultati. Il nostro obiettivo è cercare di capire se con i nostri modelli ci stiamo perdendo qualcosa di fondamentale, oppure se stiamo partendo da tesi sbagliate: potrebbe accadere che le persone valutino se qualcosa è vero o falso indipendentemente da credenze precedenti o dalla qualità della fonte. Ci possono essere tanti fattori e noi vorremmo provare a iniziare a capire quali siano i più determinanti, senza pregiudizi. Ad esempio io non penso che un individuo che crede a una notizia falsa sia più stupido degli altri: magari ha una propensione verso quella notizia oppure è troppo pessimista, e quando ne legge una molto brutta tende a ritenere sia vera. Ci possono essere motivazioni estremamente soggettive e trasversali rispetto al titolo di studio o alle ideologie, e questo è un problema per l’informazione, perché non possiamo liquidare chi abbocca dicendo: “sei ignorante e credi alle fandonie”. Temiamo sia una criticità molto più pervasiva e vorremmo capire qualcosa di più. Se emergono buone pratiche si potrebbe capire un po’ meglio come presentare la notizie”.
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