La testata del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino

“I contagiati arrivano a grappoli, impariamo dalla Lombardia”, parla il presidente di Simeu Piemonte

condividi

“Il problema grosso è sapere oggi cosa farai fra una settimana”. A parlare è Giuseppe Lauria, primario del Pronto Soccorso dell’Ospedale Santa Croce di Cuneo e presidente di Simeu Piemonte – la Società italiana della medicina di emergenza urgenza -.

“Se fra una settimana avremo cento nuovi malati, dobbiamo sapere dove metterli perché ci siamo preparati prima: è il concetto che sta dietro alla programmazione”. Un concetto molto importante in una situazione completamente nuova come quella a cui ci ha esposti il Coronavirus: “Si tratta di qualcosa che il nostro organismo non ha mai visto, soprattutto in una società come la nostra. Nel Medioevo era un conto, ma adesso siamo una società globale: il virus prende l’aereo, il treno, la macchina”.

Qual è la situazione in Piemonte?

“È simile a quella delle regioni interessate dall’allarme sociale e dai casi di Covid-19. Abbiamo alcuni focolai di malattia e lo sviluppo di questa infezione è cluster, vale a dire a gruppi. Il suo andamento è strano: ci sono infatti affollamenti di pazienti che arrivano in un tempo molto ristretto e questo ha messo in difficoltà gli ospedali e soprattutto i pronto soccorso. La necessità è garantire la separazione tra i pazienti sospetti di infezione da Covid-19 e i non sospetti. Questa distinzione all’inizio dell’epidemia era più netta, ma col tempo è diventata sempre più labile: ora è difficile distinguere le due popolazioni di pazienti.

Per questo motivo i pronto soccorso hanno dovuto adeguare i propri spazi?

“Abbiamo seguito il principio della separazione di percorso e ogni struttura ha dovuto inventarsi un modo diverso per organizzare una risposta che fosse adeguata al bisogno. Abbiamo reso flessibili delle infrastrutture che per definizione sono piuttosto rigide. La riorganizzazione delle attività ha riguardato anche la creazione di equipe con competenze sufficienti per la gestione dei pazienti affetti da Covid-19: c’è bisogno di persone che sappiano gestire infezioni e problemi respiratori. Ogni ospedale ha costruito le proprie squadre di intervento, qualcuno li ha chiamati Covid-Team. Per coordinare la situazione, io e gli altri direttori di pronto soccorso del Piemonte abbiamo usato il mezzo più banale del mondo: abbiamo creato una chat di whatsapp. Questo gruppo è diventato da una parte un mezzo per scambiarci rapidamente consigli, aiuti, letteratura, informazioni scientifiche. E dall’altra un modo per tenerci su di morale e darci un po’ di conforto soprattutto sugli aspetti organizzativi.

I Pronto Soccorso sono i primi ad accogliere i pazienti. Come funziona?

“Sono stati definiti dei criteri di triage: le tende all’esterno degli ospedali servono a intercettare precocemente i soggetti che possono essere infetti da Covid-19. Per loro c’è un percorso definito, diverso dagli altri: è per evitare che la loro potenziale infezione interessi persone che sono lì per altri motivi. A quel punto si fa una valutazione clinica e se c’è indicazione si fa il tampone, che è un esame che conferma o meno la presenza del virus. In base alla sintomatologia del paziente e alla positività del tampone, lo si gestisce. Ci sono delle situazioni in cui il quadro clinico è molto suggestivo: in genere sono pazienti a cui viene ripetuto il tampone a distanza di 24/48 ore. In quel caso li trattiamo come se fossero positivi, in modo da proteggere sia loro che il resto dell’ospedale”.

Nel “Rapporto Prima Linea Covid-19” pubblicato da Simeu il 9 marzo si parla delle Unità di Crisi. Di cosa si tratta?

“Sono degli assetti organizzativi per cui l’ospedale crea un gruppo di professionisti in genere con funzioni dirigenziali per rispondere alle necessità cliniche e organizzative che si vengono a creare. All’Ospedale Santa Croce di Cuneo l’Unità di Crisi l’abbiamo messa in piedi domenica 23 febbraio. Ci riuniamo ogni mattina alle 8:30 e poi facciamo un secondo briefing alle 18:45. Partecipiamo anche all’Unità di Crisi regionale, in cui si creano dei gruppi di lavoro in cui ognuno tiene i contatti con la sua componente. Io parlo costantemente con la mia squadra, e squadra sono tutti: dagli Operatori Sanitari, agli infermieri, ai medici in formazione specialistica. Devo dire che sono tutti sul pezzo, e questo vale non solo per il Piemonte, ma anche a livello nazionale. Ho un’altra chat di whatsapp con i direttori e i Presidenti Nazionali e so che il tono dell’umore è alto”.

Quando vengono rilevati dei casi di Coronavirus, come vi comportate?

“Qualsiasi sia il pronto soccorso interessato, i pazienti contagiati vengono centralizzati, cioè comunicati all’Unità di Crisi regionale che tiene conto di quelli che ha. Ci sono ospedali in grado di accogliere questi soggetti, altri no. I pazienti vengono trasferiti come primo livello negli ospedali muniti del reparto malattie infettive e quando viene superata la capacità di questi ospedali, se ne utilizzano altri. Nel nostro abbiamo tre livelli: A, B e C. Quando il primo è saturo, apriamo il secondo livello e così via. In Lombardia sono stati travolti dall’onda. Ieri sera c’è stata una video-conferenza online con l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano che raccoglie il Giviti, il Gruppo Italiano per la Valutazione degli Interventi in Terapia Intensiva: noi medici d’urgenza ne facciamo parte da circa un anno a mezzo. Questa aggregazione di professionisti, questa collaborazione scientifica, ha messo su dei meccanismi di tele-conferenza per cui dalla Lombardia ci hanno raccontato in maniera molto spontanea e semplice le loro esperienze. E, cosa più importante, quelli che sono stati i loro errori. Ma erano inevitabili, hanno fatto ciò che potevano. Noi però possiamo imparare da loro”.

Qual è il vostro approccio a questa emergenza?

“Se una persona decide di lavorare come medico d’urgenza, accetta di lavorare nell’indeterminatezza, nell’incertezza e deve essere pronto ad affrontare le emergenze. A questo spirito si aggiunge il fatto che fa parte della nostra competenza professionale prepararci a queste situazioni non solo clinicamente, ma anche logisticamente. E’ una sfida sconosciuta, ma possiamo farcela”.

C’è un lato positivo in questa sfida?

“Una cosa che stanno percependo tutti è il supporto: gli operatori del Sistema Sanitario Nazionale finalmente lo sentono. Dopo anni di critiche, si sta davvero comprendendo che avere un SSN pubblico è un valore e non un costo come è stato presentato negli ultimi 10/12 anni. Credo che sia questo uno degli effetti collaterali positivi di questa situazione e spero che sia una vaccinazione a lunga durata, anche per i politici. Lo vedo nei pazienti, lo testimoniano i pronto soccorso meno affollati. In parte è per paura, ma in parte la responsabilità è cresciuta e si è compreso che è giusto fare così. Usare i luoghi di cura con cura: credo che sia questa la cosa giusta da fare”.

CHIARA MANETTI

Articoli Correlati