In India c’è un detto: «È possibile prevedere il colore che andrà di moda nella prossima stagione, guardando il colore dei fiumi». Trovare dati credibili rispetto al consumo dell’industria della moda è un’impresa per niente semplice. Il motivo? La sua è una catena produttiva estremamente frammentata. Un paese produce le materie prima, un altro le lavora, un altro ancora si occupa della distribuzione, e in tutto il mondo ci sono negozi che vendono il prodotto finale. In mezzo, dalla coltivazione di cotone fino al maglione sullo scaffale, ci passa il mondo intero. Ci passano le sostanze chimiche utilizzate e riversate nei fiumi indiani, ci passano le condizioni di lavoro svantaggiate delle donne pakistane, ci passano le tonnellate di indumenti prodotti e mai indossati. Tutto questo rende molto complicato tracciare i costi reali dell’intera filiera, sia in termini economici che etici ed ambientali. Secondo un rapporto di Greenpeace, la produzione di abbigliamento dal 2000 al 2014 è raddoppiata. È l’esplosione del cosiddetto fast fashion.
Ma negli ultimi anni, si assiste a un vero e proprio ritorno di popolarità verso una moda più attenta alle esigenze del pianeta e delle condizioni dei lavoratori. «È vero, la sostenibilità sta diventando di moda, ma siamo già molto in ritardo rispetto a questa tematica», racconta Cristina Marino, ricercatrice del Politecnico di Torino. Serve cambiare rotta e per farlo non basta l’impegno delle aziende, come sottolinea Marino: «Non ci può essere moda sostenibile senza la consapevolezza e la responsabilità del consumatore».
MODA SOCIAL
A farsi voce di queste sensibilità spesso sono giovani donne molto conosciute nel mondo dello spettacolo e sui social, che utilizzano il proprio spazio di notorietà per diffondere una cultura del consumo responsabile, etico ed ecologico. È l’esempio di Emma Watson, attrice di fama internazionale, che su Instagram ha aperto il profilo ‘Tre Press Tour’ in cui sfoggia abiti realizzati con materiali sostenibili e in cui mostra ai suoi circa 400 mila followers alcune tra le marche più attente e sensibili alla questione ambientale. Sul fronte italiano c’è Camilla Mendini, sui social Carotilla. Dal 2017 sul suo canale YouTube e poi su Instagram dispensa consigli per chi vuole vivere eco-fiendly, dal cibo, ai vestiti, fino ai cosmetici.Con gli anni ha raggiunto una grande popolarità, tanto da diventare un punto di riferimento nel panorama della moda etica, in cui si è affermata non solo come influencer ma anche come stilista grazie alla sua linea di abiti sostenibili e fatti a mano.
QUI, TORINO
Senza scomodare influencer o attrici, basta fare una passeggiata in alcuni quartieri di Torino e notare come, allontanandosi dai grandi marchi che dominano le vie del centro, si moltiplichino i negozi artigianali, made in Italy, i piccoli laboratori di abiti e scarpe fatte a mano. In San Salvario ad esempio c’è Sassi, aperto 10 anni fa da Alessandra Berardi. Qui si trovano capi ricercati e attenti all’ambiente, sono quasi tutti prodotti a Torino da tessuti di recupero. «Quella della sostenibilità è un’attenzione che è arrivata con il tempo -racconta Alessandra- ultimamente con gli altri laboratori del quartiere stiamo cercando di ottimizzare le spedizioni dei fornitori, è assurdo che vengano quattro corrieri a portarci le stesse cose». Alessandra da sette anni organizza anche degli shop party, gli “Svuotarmadio”, in cui ciascuno può scambiare o donare i vestiti che non utilizza. Ultimamente sta lanciando anche in un nuovo tipo di servizio: una consulenza privata del proprio armadio di casa. Troppi vestiti, impossibili da tenere in ordine? Ci pensa lei. «È inutile avere gli armadi pieni quando si utilizzano sempre le stesse cose -dice- più disordine c’è, più si tende a comprare». Un’altra realtà, diversa ma non troppo distante, è quella di Humana people to people, un’organizzazione negli anni Settanta e arrivata in Italia intorno agli anni 2000, che raccoglie abiti usati per rivenderli nei propri negozi e utilizzare il ricavato in progetti di cooperazione e sviluppo. A Torino è presente con due negozi. «Non siamo certo una boutique del vintage», ci tiene a sottolineare Laura Di Fluri. Da Humana infatti è possibile acquistare abiti usati e di buona qualità a pochi euro. «Vogliamo generare un cambiamento culturale nei consumatori, che comprando da noi allungano il ciclo di vita dei prodotti. Per questo siamo un posto in cui tutti possono permettersi di fare acquisti». La vera forza di Humana è che riesce a controllare la sua intera filiera di produzione in modo trasparente. Ed è un sistema che ha successo. Solo nel 2018 Humana ha raccolto circa 109 milioni di euro da destinare ai progetti che porta avanti a livello internazionale.
OGGETTI DI MODA