C’è una bambina che corre veloce. Gioca a calcio con i suoi compagni di scuola.
Cresce ed è sempre più forte. Al liceo gioca già in serie A, con altre bambine che corrono veloci. È brava, molto brava, si allena tutti i giorni e il calcio è la sua vita. Ma i suoi compagni di scuola, quelli che giocavano con lei, sembra abbiano più diritto di lei ad essere definiti atleti, calciatori.
“Nel mondo dello sport, la disparità di genere è fortissima, in Italia ancora di più”. Alice Pedrazzi oggi è la direttrice di Confcommercio Alessandria, ma fino al 2006 ha giocato a basket con la maglia azzurra. “Prendiamo l’esempio della pallacanestro: i maschi che giocano in serie A1 sono professionisti e quindi hanno un contratto nazionale del lavoro con contributi, malattia, trattamento di fine rapporto. Le donne, stessa serie e stessa federazione, sono dilettanti. Quindi hanno dei rimborsi spese. Non esiste lo sport professionista femminile”.
Tutte le sportive, anche le più note, sono considerate, burocraticamente, semplici dilettanti. Da Valentina Vezzali a Federica Pellegrini, fino alle calciatrici azzurre che, proprio in questi giorni, stanno giocando ai mondiali di calcio femminile con forza e onore.
Questione di business? “Questa è la scusa”, afferma Pedrazzi. “È vero che è così, perché gli sponsor non hanno evidentemente lo stesso interesse a sponsorizzare una squadra maschile e una squadra femminile. Ma è un cane che si morde la coda”. E lo sarà, finché le donne continueranno a non apparire in televisione, finché i giornali sportivi dedicheranno loro solo un piccolo trafiletto a fondo pagina, finché nessuno ne racconterà le storie. I palazzetti rimarranno vuoti, le ragazze continueranno a non essere riconoscibili e gli sponsor non avranno nessun tipo di interesse ad investire. “Non è un confronto alla pari”, conclude l’ex cestista.
In questo modo, anche dal punto di vista legale, le donne che lavorano come atlete – perché questo è, un lavoro – non sono tutelate. Il contratto da dilettante non prevede né fondi pensionistici né sostegno durante la maternità. “Io stessa quando giocavo avevo firmato un contratto che recedeva automaticamente in caso di gravidanza”, racconta Pedrazzi. “Solo ora, con la legge finanziaria del 2017, è stato inserito un fondo unico per il sostegno al movimento sportivo italiano che comprende anche un contributo per la maternità delle atlete. È ancora molto limitato perché si parla solo di atlete d’eccellenza, ma è già qualcosa”.
In Europa, e pian piano anche in Italia, lo sport femminile sta appassionando sempre più tifosi, ma la parità è ancora lontana anni luce. Parlando di stipendi, la distanza tra uomini e donne è abissale: “Escludendo le cosiddette top player (ma in Italia ne contiamo, forse, cinque), il rapporto tra lo stipendio di una giocatrice di serie A1 e quella di un suo collega maschio è di 1 a 8”, spiega Pedrazzi. Una ragazza che gioca a pallacanestro in serie A1, infatti, guadagna 62mila euro all’anno, il suo collega maschio ne guadagna 500mila.
Anche dal punto di vista delle posizioni ricoperte nel mondo dello sport, le donne rimangono sottorappresentate negli organi decisionali delle istituzioni sportive, sia a livello locale e nazionale, sia a livello europeo e mondiale.
Secondo il rapporto sulla parità di genere nello sport dell’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere (Eige), le donne che ricoprono posizioni decisionali nelle confederazioni continentali degli sport olimpici in Europa sono solo il 14 %. Su 28 confederazioni esaminate, su un totale di 91 posizioni, solo una da presidente e otto da vicepresidenti sono ricoperte da donne. “E in Italia, le donne allenatrici sono solo il 10%”, aggiunge Pedrazzi.
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Se il mondo dello sport – che dovrebbe promuovere la parità e l’inclusione – continuerà a considerare le donne come atlete di serie B e ad ampliare il divario tra uomo e donna, accentuando i concetti di “femminilità” e “mascolinità”, il muro della cultura di genere diventerà sempre più difficile da abbattere. Ma le bambine che corrono veloci non si devono fermare.