“Il volontariato è un antidoto alle chiusure e agli egoismi che possono generarsi di fronte a momenti di difficoltà personale o collettivi.” Queste sono le parole pronunciate il 5 dicembre 2018 dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della 33ª Giornata internazionale del volontariato. Secondo i dati più recenti dell’Istat, in Italia sono più di 300.000 le istituzioni no profit che si dedicano ad attività di volontariato, dall’ambito socio-assistenziale, sanitario, alla cooperazione internazionale. Solo in Piemonte le associazioni registrate nel 2018 erano 3258, 1400 a Torino.
Il volontariato è una macchina complessa e difficile da gestire, ma ogni anno migliaia di ragazzi dedicano il proprio tempo libero in aiuto dei più bisognosi, e come afferma Marco Bani, Consigliere direttivo del Centro Servizi per il volontariato della provincia di Torino: “Se i volontari improvvisamente scioperassero si fermerebbe metà del Paese.”
Moltissime sono anche le associazioni di cooperazione internazionale e tanti i ragazzi in partenza spinti da motivazioni ancora più forti: “Viaggiare in questo modo mi permette di vivere una realtà dall’interno, e di entrare in contatto con l’altro, con il diverso.” racconta Elisa Pira, che dal 2014 dedica i mesi di gennaio e febbraio al volontariato nel mondo.
“Bisogna essere pronti a cambiare i propri piani – continua la ragazza – perché il turista parte per essere servito, ma il volontario parte per servire.”
Le testimonianze dei ragazzi che, sparsi nel mondo, hanno deciso di collaborare a progetti internazionali di volontariato:
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Tra le varie associazioni che operano nel mondo del volontariato c’è VSN, Volunteer Society Nepal, nata nel 2004 a Kathmandu:
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Nepal, sapore di spezie ai piedi dei templi
di Valeria Tuberosi
Sono partita per un’esperienza di volontariato la scorsa estate con un’associazione di Milano che si chiama YearOut, sono andata in Nepal, a Kathmandu. Avevo bisogno di dare un senso alla routine delle mie giornate. Prima ho prestato servizio in un centro per ragazzi disabili che non andavano a scuola come tutti gli altri, poi per una scuola materna: i bambini in Nepal studiano inglese, matematica e nepali già da quando hanno 4 anni.
Il Nepal è i suoi paesaggi dissestati anche se il terremoto è passato da qualche anno, le schiere di uomini che camminano, vanno in moto e in auto in ogni angolo di strada, sotto il diluvio, vestiti di niente. Quello che i miei occhi hanno visto del Nepal è solo dei miei occhi. Le strade dissestate e piene di fango che i miei piedi hanno dovuto attraversare sono solo dei miei piedi. Le mani dei bambini che hanno toccato e intrecciato le mie sono ricordi sulla mia di pelle, mie le voci che intonavano in modo impreciso l’inno in nepali tutte le mattine. Nei miei occhi i mille colori dei vestiti, stoffe, sciarpe, borse che ho visto nei negozietti del centro, nella mia bocca il sapore del Dal Bhat, la zuppa di lenticchie che ho mangiato tutte le sere, o il sapore dolciastro del the al latte che mi davano per merenda. È dei miei occhi la grandiosità dei templi rosso mattone, il senso di spiritualità dei monasteri, le vacche ferme ad ogni angolo di strada, le famiglie che ho visto vivere in mezzo alle baracche, i bambini giocare a calcio scalzi nel fango. Sono nella mia gola la sensazione insopportabile dello smog, l’odore di spezie proveniente da qualsiasi casa a qualunque ora. Sono nelle mie orecchie il rumore dei clacson ed il traffico di una Kathmandu delirante che non si ferma mai. E non si sa mai di preciso dove stia andando, però vive grazie ad un popolo ed i suoi 5 euro al giorno. Tutto questo è solo mio. Totalmente assurdo e diverso dalla nostra realtà da sembrare irreale.
Più che un’esperienza di volontariato, è stata un’esperienza di vita, più tosta di quello a cui ero mentalmente preparata. La più impegnativa di questi 29 anni, che però mi ha insegnato due cose. Ho compreso le mie priorità e deciso di non perdere più tempo, sfruttando le opportunità che in alcune parti del mondo alcune persone, soprattutto donne, non avranno mai.
Infine ho scoperto di non aver più paura: se ho preso il taxi in mezzo al nulla e girovagato per una cittadina dall’altra parte del mondo da sola, posso davvero tanto.
Ho spesso detto che, forse, tornassi indietro, non sceglierei la stessa meta, perché ho bisogno di respirare molto più verde, ma alla fine, che importa, l’ho fatto.
L’eco dell’India
di Martina Stefanoni
Il caldo. Appiccicoso caldo tropicale. Mi ha investita, appena uscita dall’aeroporto, dopo il gelo dell’aereo, catapultandomi improvvisamente nel presente.
Ero in India. Entravo per la prima volta in quel fantastico e disperato mondo e mi immergevo nel suo via vai senza risparmiarmi. In 12 ore da Milano ad Hyderabad, da un aeroporto all’altro, che quasi sembra di non aver mai lasciato quello di partenza, invece poi fuori, appunto, il caldo. E le persone. Tante, tantissime persone. Tutte intorno a te. E ti ritrovi con gli occhi spalancati e la bocca semiaperta, abbracciando lo zaino quasi fosse un bambino, e un po’, in fondo, lo è. L’impatto con la città è stato debilitante: il caldo, lo smog e la confusione richiedono qualche giorno di adattamento, ma una volta raggiunta la pace interiore, inizia il divertimento.
In india ogni cosa è un buon pretesto per fare rumore. A cominciare dalla guida: non esistono frecce, solo clacson. Vuoi passare? Suona. Non vuoi che quello dietro di te passi? Suona. C’è un pedone che attraversa? Suona.
E poi la pioggia. O meglio, i monsoni. Che non hanno niente a che vedere con la nostra pioggia. Quella monsonica è più un fiume che scende dal cielo direttamente sulla tua testa e ti bagna fin dentro le ossa. Ma sotto le tettoie la gente balla, canta e suona e i bambini corrono nella pioggia a piedi nudi.
L’India è una vera festa quando vuole, ma sa essere anche crudele e terribilmente reale.
Il vero scopo del mio viaggio, in realtà era il volontariato. Così, da Hyderabad, dopo due pullman e qualche tuk tuk, siamo arrivati a Warangal. Il lavoro era semplice: accompagnare i paramedici nei villaggi per aiutarli a distribuire, ogni mattina, i medicinali a pazienti affetti da lebbra, HIV e TBC e controllare che seguissero la terapia. Mi ero preparata, avevo letto libri e articoli, ma non avevo davvero idea di quello che avrei trovato realmente.
Ho visto la malattia, nel suo stato più degradante, e la povertà, quella che ti immobilizza, ti ammutolisce. Ho visto la sofferenza e il dolore. Ma ho visto anche la forza e l’energia. Il desiderio di risollevarsi e di andare avanti. L’ho visto nelle donne che con determinazione e occhi luminosi portano avanti la rivoluzione di un mondo silenzioso e nei sorrisi dei bambini sieropositivi che mi hanno accompagnata nel cuore dell’India con i loro giochi, tenendomi per mano.
L’India che ho vissuto è piena di contraddizioni, di diversità, di sentimenti contrastanti. Un’India di una bellezza nascosta, non lampante, ma celata negli occhi grandi e timidi, nei sorrisi limpidi e spontanei. Forse questo è il viaggio in India di cui tutti parlano, un viaggio dentro sé stessi, prima di tutto. E un viaggio dentro un’altra umanità, che si scontra e si incontra con la mia idea di umanità. Contraddittoria e coerente, calda e fredda, nuova e antica, semplice e molto complessa.
Ora ripenso spesso a quelle sere, nella penombra del black-out, raggomitolata nella zanzariera. Penso a quella felicità che mi invadeva ogni mattina, una felicità diversa, più contemplativa. E poi penso alla libertà.