Recuperare materiali e recuperare persone. Questa è la missione con cui è nata Social Wood, la prima bottega solidale in un carcere d’Italia. È un negozio piccolo, realizzato in legno e con gli scaffali pieni di prodotti creati dai detenuti: dal pane al caffè. Si trova all’interno delle mura della Casa circondariale ‘Cantiello e Gaeta’ di Alessandria e chiunque può entrare. E uscire. La bottega Social Wood è nata a dicembre 2018 con l’obiettivo di abbattere il muro tra carcere e realtà esterna e per dare un’occasione vera di recupero ai detenuti.
Due sono gli assunti dalla bottega e circa trenta le persone coinvolte in un percorso di formazione. “Il prossimo passo – spiega Andrea Ferrari, Presidente dell’Associazione Ises promotrice del progetto – è aprire una falegnameria al di fuori del carcere per permettere ai detenuti di lavorare una volta usciti”.
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Lavoratori di Serie A e di Serie B
Un cittadino che lavora è un lavoratore. Un detenuto che lavora, no. È un lavorante.
È questo il termine che si utilizza nel gergo penitenziario per parlare delle persone detenute che svolgono attività retribuite. I lavoranti in Italia alla fine del 2018 sono 17.614, circa il 30% sul totale dei detenuti.
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Ma il dato cruciale è un altro: tra i detenuti che lavorano solo il 13% è impegnato in mansioni presso cooperative o soggetti diversi dall’Amministrazione Penitenziara. Sarebbe a dire che tutti gli altri, la stragrande maggioranza, lavora nelle strutture carcerarie. Fanno gli ‘scopini, gli ‘spesini’, gli ‘scrivani’: quelli che puliscono, fanno la spesa o scrivono per gli altri detenuti. Lavori generalmente a turnazione che impegnano un paio di ore a settimana e poco retribuiti, a seconda dei soldi che ogni istituto mette a disposizione. Per loro niente stipendio, la paga viene chiamata mercede.
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“La sfida è portare nelle carceri lavoro vero, cioè con datori di lavoro diversi dall’Amministrazione Penitenziaria”, spiega Michele Miravalle, Coordinatore nazionale dell’Osservatorio di Antigone e ricercatore di sociologia del diritto a Torino. “Prima di tutto serve cercare di limitare lo stigma che si porta addosso la persona detenuta: oggi un datore di lavoro che non conosce il mondo del carcere ne è impaurito e ne sta alla larga. In secondo luogo occorre una forte sburocratizzazione amministrativa di tutto il mondo penitenziario, accompagnata da un rifinanziamento della Legge Smuraglia”. Questa norma del 2000 prevede sgravi contributivi e agevolazioni nei confronti di aziende e cooperative che assumono detenuti, ma per Antigone “negli anni è stata decurtata e oggi è ai minimi storici”.
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Per quanto riguarda la realtà alessandrina, tra le due strutture penitenziarie, la casa di reclusione San Michele e la casa circondariale Cantiello e Gaeta, sono circa 150 i detenuti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, solo una decina quelli con un lavoro retribuito. Dieci su 670 detenuti totali che in media popolano i due istituti. Numeri tutt’altro che significativi, che restituiscono l’immagine di una realtà con poche risorse e alle prese ogni giorno con gravi problemi strutturali. Lo conferma Elena Lombardi Vallauri, direttrice delle due strutture di Alessandria, sovraffollate come la quasi totalità delle carceri italiane. “Bisogna moltiplicare e diversificare le attività, perché le persone hanno capacità e competenze diverse. In questo modo si risponde meglio alle caratteristiche di ciascuno e l’impegno è più sostenibile – spiega la direttrice – Il lavoro del carcere è un lavoro complicato perché è necessario individuare le qualità di ciascuno e accompagnarlo in modo che costruisca una speranza concreta”.
Una speranza che si avvicina soprattutto per i detenuti in uscita. In Piemonte entro la fine dell’anno saranno circa ottocento le persone che torneranno in libertà. 2300 nei prossimi quattro anni. A loro è rivolta l’intesa da tre milioni di euro firmata lo scorso gennaio tra Regione, Amministrazione penitenziaria e Garante dei detenuti. L’obiettivo è creare degli sportelli lavoro nei 13 istituti penitenziari del territorio piemontese, nel tentativo di rispondere all’esclusione sociale a cui i detenuti spesso sono destinati. “Occorre fare leva sulle competenze e sulle capacità dei singoli e attivare dei percorsi individuali”, racconta il Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano. “Solo così si può intercettare il grave problema della recidiva e dare speranza di recupero e reinserimento”.
La recidiva è proprio uno dei problemi più frequenti per i detenuti che scontano la propria pena e tornano in libertà. E chi non riesce a crearsi, o a mantenere, un’alternativa a ciò che l’ha condotto in carcere, spesso in carcere ritorna. Il lavoro dunque non è solo uno strumento per ridare valore e dignità al detenuto e alla pena che sconta, ma una vera opportunità per la persona di riqualificarsi e crearsi una ‘rete di salvataggio’ pronta ad accoglierlo una volta fuori.
Imparare a lavorare. In carcere.
Rihad lavora a Grugliasco, fa il pizzaiolo. È tunisino e prima del 2012 non sapeva neanche fare il pane. Il lavoro che fa oggi l’ha imparato in carcere. Nel San Michele di Alessandria, grazie alla cooperativa Pausa Cafè, che da più di quindici anni collabora con le strutture penitenziarie piemontesi. Nel 2012 ha aperto un panificio artigianale tra le mura del carcere alessandrino. A sette anni di distanza il forno di San Michele sforna tremila chili di pane ogni settimana, distribuito in 90 punti vendita tra Liguria, Piemonte e Lombardia. In varianti che spaziano dal pane quotidiano alla versione con farina di segale, il pane libero, ma anche pane alle noci, alle olive taggiasche e grissini. Il punto forte di Pausa Cafè sono i prodotti di alta qualità. “Questo da un lato ci garantisce di restare nel mercato, dall’altro è un modo per promuovere scelte di vita consapevoli”, spiega Luciano Cambellotti. Oltre al panificio la cooperativa gestisce un punto vendita a Torino e un bistro a Grugliasco dove dà lavoro a ex-detenuti, come Rihad.
Ma quelle di Social Wood e Pausa Cafè non sono le uniche esperienze lavorative nelle due strutture di Alessandria. C’è anche la cooperativa sociale Coompany &, che da più di 25 anni collabora con l’amministrazione carceraria per il reinserimento lavorativo dei detenuti. I volontari di Coompany, insieme ai detenuti, hanno creato una fattoria ecologia che negli anni ha prodotto frutta, verdura, miele e camomilla. Quest’anno la cooperativa è impegnata, in collaborazione con la Cia, la Confederazione italiana agricoltori, a un corso di formazione in ambito agricolo. All’interno della squadra di Coompany lavora anche un ex-detenuto che ha scontato la sua pena al San Michele. “Ha iniziato a lavorare con noi quando lui era verso la fine della pena”, racconta Ahmen Osma, mediatore culturale di Coompany. “Era in carcere da vent’anni. Adesso coordina un intero reparto e vive in provincia di Alessandria come se fosse casa sua”.
L’articolo 27 della costituzione recita:
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Tra i muri del carcere San Michele sta nascendo un nuovo progetto che si ispira proprio a questo passaggio della Costituzione. È il progetto “Agorà”, ideato dall’associazione Terre di mezzo, che porta avanti percorsi di incontro tra i giovani e i detenuti. A raccontarlo è Don Pietro Sacchi, sacerdote di Tortona che ha trovato nel carcere lo spazio e la dimensione del suo servizio: “Quando entro trovo umanità, persone che hanno bisogno di attenzione, non di cose. Tutti avremmo bisogno di venire qui”. Il progetto “Agorà”, che si realizzerà nei prossimi mesi, ha l’ambizione di proporre una nuova concezione di carcere, un nuovo modo di vedere la vita di reclusione, concentrandosi sull’uomo, prima che sul detenuto. Prevede una serie di iniziative di riqualificazione degli ambienti detentivi e, tra le altre proposte, anche quella di due borse-lavoro, ovvero progetti educativi che formano e retribuiscono il detenuto.
Le carceri continuano dunque ad essere un luogo da cui tenersi lontano. A sfidare questo pregiudizio ad Alessandria ci pensa la bottega Social Wood, ci pensa Rahid con le sue pizze. Ci pensa chi permette agli uomini che abitano il carcere di vivere una seconda possibilità, e lo fa insegnando loro un mestiere.
Perché l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Per tutti, anche per i detenuti.