Elencare delle cifre può risultare facile, i numeri spesso impongono lontananza. Con le storie invece si deve fare un passo in più. Stiamo parlando di migranti e migrazioni, che da secoli accomunano storie alle latitudini opposte del mondo, e che negli ultimi anni sono finite al centro del dibattito internazionale.
Anche il Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia ha seguito un filone con diversi incontri e approfondimenti sulle migrazioni e su come queste debbano essere raccontate. “L’informazione si è appiattita, si parla solo di burocrazia e governi, ma, forse, se si riuscissero a raccontare le vite, e non solo i numeri, si darebbe alla gente la percezione reale di ciò che sta accadendo”, sono le parole di Corrado Formigli, giornalista di “Piazza pulita” che, dialogando con Oscar Camps, fondatore della Ong spagnola Proactiva Open Arms, ha provato a raccontarle queste storie (il video dell’incontro completo qui).
“Quando ho visto quella foto ho pensato ma perché non c’era nessuno ad aiutarlo?”, Oscar Camps parla di Aylan Kurdi, il bambino siriano di 3 anni, fuggito da Kobane in Siria e affogato nelle acque del Mar Mediterraneo. Era partito con la sua famiglia che aveva come prima tappa la Grecia, e come ultima il Canada, dove si trovavano alcuni parenti. L’unico superstite della traversata fu, però il padre, mentre Aylan, il fratello e la madre morirono. Il bambino venne trovato sulle coste di Smirne, in Turchia, nell’estate del 2015, e la foto di quel corpo inerte su alcuni dei principali giornali europei ebbe un forte impatto emotivo sull’opinione pubblica, sottolinea anche Formigli. “Da allora, però ne sono morti 1000 di Aylan Kurdi. Sembra che quella sensibilità non esista più. E’ iniziata una battaglia mediatica contro il povero, che ha portato alla perdita di empatia. Ormai siamo indifferenti di fronte a questi morti” commenta Camps, che proprio dopo aver visto quella fotografia ha deciso di fondare Proactiva Open Arms.
Nel marzo 2018 la procura di Catania ha accusato la Ong spagnola di associazione per delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina. Oggi, dopo diversi salvataggi, l’ultimo dei quali avvenuto a natale scorso, l’attività delle Ong è ferma e l’attivista spagnolo si chiede se, proprio per questo, i morti di qualche tempo fa non siano diventati silenziosi.
Le storie raccontate da Formigli e Camps sono anche testimonianze che arrivano direttamente dalle carceri libiche. Esiste un fenomeno, il push system: la decisione di morire in mare piuttosto che vivere anche solo un giorno in più lì. Queste persone vengono incarcerate, torturate, muoiono senza assistenza medica per infezioni e malattie. Per i libici i neri sono schiavi, in arabo esiste la stessa parola per riferirsi ad entrambi. Sono storie di eritrei che cercano di scappare, e per farlo dovranno superare il deserto dei Dancali, dove ci sono più morti che nel Mediterraneo. Ci sono testimonianze di persone che tentano di giungere in Libia, ma subiscono estorsioni e violenze, per 300-400 dollari le famiglie vengono ricattate, per poter tornare a casa, o forse non tornarci più. Le narrazioni delle donne sono sempre accomunate da stupri, la maggior parte di loro messe incinte per violenze multiple. “Quando queste persone arrivano hanno già sofferto di tutto. Non sono più disposte a rivivere lo stesso giro della morte – commenta Formigli – questa è la ragione per cui sono terrorizzate all’idea di tornare lì.”
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“Non voglio tornare in Libia” sono state anche le prime parole della storia di Josefa, del Camerun, ritrovata da Open Arms sulle coste della Libia la scorsa estate, dopo 48 ore in mare vissute appoggiata ad un ramo. Cantava una preghiera, ed era scappata dal marito che la picchiava perché non poteva avere figli, da un posto che non avrebbe voluto mai più rivedere. Ora, riferisce Camps, sta bene. Ora porta più spesso quello smalto alle unghie che le è stato contestato da qualcuno perché “non da naufraga”. Le era stato messo dai volontari della Ong che cercavano di renderla di nuovo “umana”.
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