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Quella volta che Philip Roth incontrò Primo Levi a Torino

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Philip Roth, 85 anni, è morto nella notte. È stato uno dei più grandi scrittori americani di sempre, eterno secondo nella corsa al Nobel per la Letteratura.

Tra le opere meno conosciute, l’antologia “Why Write?”, uscita lo scorso settembre e non ancora tradotta in italiano. Un puzzle, un maquillage di “Collected nonfiction” tra il 1960 e il 2013. Sono una selezione di suoi interventi sulla scrittura che tracciano sottotesto anche l’evoluzione di Roth, da autore alle prime armi a scrittore più conosciuto d’America. E qui c’è anche Torino, vista attraverso il dialogo con Primo Levi.

I due autori hanno passeggiato e dialogato, creando un percorso da cui è nata un’intervista. Insieme hanno visitato la fabbrica di vernici di Settimo Torinese dove Levi ha lavorato prima e dopo il lager, fino al pensionamento: «Per quanto lontana dallo spirito della prosa, la fabbrica è chiaramente vicina al suo cuore» scrive Roth. La scena successiva è davanti alla scrivania di Levi in corso re Umberto 75, dove l’autore è nato, cresciuto e si è suicidato, otto mesi dopo la visita di Roth. «Non so di nessun altro scrittore contemporaneo – scrive Roth – che per così tanti decenni sia di sua volontà rimasto intrappolato intimamente e in un contatto così diretto, ininterrotto, con i propri parenti stretti, il proprio luogo di nascita, il luogo dei suoi antenati e in particolare del suo ambiente lavorativo, che a Torino, sede della Fiat, è largamente industriale».

 

Discutono di quanto la cultura e la condizione professionale siano stati fattore determinante per la salvezza di Levi e altri come lui nel lager. “Secondo me l’uomo civilizzato che pensa troppo è inscindibile dal sopravvissuto” dice Roth “Lo scienziato e il superstite sono una cosa sola”. “Benissimo! Hai colpito nel segno” gli risponde Levi. L’intervista è stata in parte ripubblicata anche da La Stampa di allora.

 

MARTINA PAGANI

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