“Mi sono imbarcato nella bicicletta come se mi fossi innamorato di una donna”. Italo Zilioli ha cominciato a pedalare a diciassette anni, non era un bambino. I suoi coetanei iniziavano a guardare le ragazze, uscivano con gli amici, inseguivano le distrazioni dell’adolescenza. Lui durante l’estate lavorava con lo zio carpentiere per mettere da parte diecimila lire, un gruzzoletto di partenza che, con l’aiuto del padre, gli sarebbe servito per comprare la prima bici. Quello di Zilioli per la bicicletta era un amore maturo, non una sbandata. Un amore che richiedeva impegno e costanza, rinunce e sfide continue, e che non ha dimenticato neanche oggi, a settantasei anni.
Perché la bicicletta?
“Ho iniziato a pedalare per evasione, poi ho cominciato ad avere voglia di misurarmi con gli altri, di correre con un numero sulla schiena”.
E ci è riuscito: nel 1962 è diventato professionista
“Al Giro dell’Appennino, avevo ventuno anni. Non ho vinto ma sono riuscito a staccare tutti sulla Bocchetta, la salita più dura”.
Però vinse l’anno dopo, e tutti cominciarono a parlare di lei come del nuovo Coppi e a chiamarla Coppino
“Dopo la morte drammatica di Coppi, i giornalisti erano alla ricerca di un sostituto. Io sapevo di non essere come lui ma, per uno strano gioco psicologico, questo paragone mi faceva andare più veloce”.
Come mai questa consapevolezza? Non sognava in grande?
“Non ho mai avuto la testa per vincere i grandi giri: bisognava programmare, essere il manager di se stessi. Io invece ero istintivo, dopo ogni sconfitta mi rassegnavo e mi ripetevo: ecco il solito Zilioli”.
Com’era il solito Zilioli?
“La definizione migliore l’ha data Sergio Zavoli: esile, incerto, sensibile, con i turbamenti di un intellettuale o di una fanciulla. Ero istintivo, e con l’istinto si sbaglia spesso, anche se ogni tanto il talento mi aiutava a supplire ai miei difetti. Per me la carriera e la vita personale sono sempre andati di pari passo: pedalando cercavo la gioia anche nella vita e quando ero contento pedalavo meglio”.
E lo Zilioli che vinceva?
“Quando vinci sei il più bravo, il più bello, il più intelligente. Ma io no, io sono insicuro. Non sono mai stato vaccinato contro i fischi e gli insulti, che un tempo erano la prassi durante le gare. Quando a Milano ho sentito inveire il pubblico contro di me mi sono sentito offeso, mi sono intristito e ho deciso di fare un passo indietro. Quella del super non è mai stata la mia parte”.
C’è una gara che non dimenticherà mai?
“Non ho corse-monumento da ricordare. La vera vittoria per me era vedere ripagati i miei sacrifici, su tutti l’assenza in famiglia. La maglia gialla e l’inno di Mameli galvanizzavano, è innegabile, ma ho sempre amato le corse più piccole, come il Giro dell’Appennino”.
Segue ancora il ciclismo?
“Lo trovo uno sport troppo tecnico, si dà importanza eccessiva alla squadra. Da dopo Pantani non mi appassiono più. È stato l’ultimo ciclista istintivo, ora sono tutti pilotati”.
Per non parlare dei cicloni doping. Anche ai suoi tempi era un problema?
“Quando correvo io, il doping era fai da te. Esistevano le pasticche degli studenti, le chiamavamo così perché facevano stare svegli per preparare gli esami. Poi sono state scoperte ma quelli che andavano veloce hanno continuato a farlo, forse perché la loro forza era nella testa: la differenza sta tutta nel carattere. Il disonesto ci sarà sempre, i balordi sono ovunque e non si rassegnano a causa dell’ambizione e della sete di denaro. Poi ci sono gli ignoranti, che non valutano il rischio e credono ancora che non verranno scoperti. La verità è che a cambiare le gerarchie sono la determinazione e il carattere. Ai miei tempi Eddy Merckx, mio grande amico, voleva farci fuori tutti. Noi pensavamo che lui avesse il gas, che quando decideva andava, invece prima di tutto rifletteva”.
Che cosa pensa di Froome?
“Ha fatto qualche spruzzatina in più per l’asma ma non credo che da quello dipenda la vittoria del Tour de France. Il salbutamolo non è una sostanza che cambia la cilindrata come invece faceva l’EPO”.
E di Armstrong?
“Ha voluto fare l’Al Capone del ciclismo organizzando un doping di squadra. È stato presuntuoso, ha sbagliato e nella sua mania di grandezza ha perseverato”.
Se il ciclismo non fosse diventato la sua professione, cosa avrebbe fatto?
“Il disegnatore”.
Un po’ diverso dal ciclista…
“Non così tanto: sono stato un corridore-artista, estroso ma ogni tanto vincevo. Ci sono anche i corridori che hanno tanta fantasia ma non vincono mai. Ecco, quelli però sono i pazzi”.
Nel ciclismo di oggi c’è ancora spazio per i corridori-artisti?
“Il ciclismo non è un gioco come il pallone, è molto più duro. Ci vuole una grande passione per riempirsi il cuore pedalando sulle stradine, tanta forza di volontà, ma anche un pizzico di incoscienza perché ci sono tanti pericoli, soprattutto oggi. Sulla bici si è da soli con la propria testa, le gambe vanno da sole e non ragionano. Io da giovane non guardavo il risultato, per me contavano le emozioni: valeva sempre la pena di pedalare. A volte mi sono inventato dei numeri che avrei dovuto evitare, magari perché ero troppo lontano dall’arrivo. Oggi guardo il mio figlioccio Filippo che a 17 anni percorre 100-120 km al giorno e gli dico: aspetta sempre il finale”.