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Il nuovo algoritmo di Facebook, spiegato bene

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Giovedì 11 gennaio Mark Zuckerberg, amministratore delegato di Facebook, ha annunciato con un post un cambiamento nell’indicizzazione dei contenuti sulla homepage, ovvero quella parte del sito che in inglese viene definita “News Feed” e in Italia sezione delle notizie. Non è chiaro a partire da quando, ma in futuro alcuni contenuti pubblici verranno penalizzati a favore dei post di utenti individuali, come familiari e amici, con cui siamo soliti interagire attraverso commenti e “mi piace”. Cosa significa? Semplicemente che visualizzeremo meno video, inserzioni pubblicitarie e link ad articoli (come questo) che fanno capo ad aziende, brand o pagine.

Il cambiamento arriva a poche settimane dall’inizio del 2018, un anno che Zuckerberg vuole dedicare a risolvere i problemi che hanno tenuto Facebook sulla graticola nel 2017: “Voglio assicurarmi che Facebook sia utile per il mondo”, ha detto di recente al New York Times.

Nel post di giovedì Zuckerberg ha fatto un’affermazione piuttosto forte: “Voglio essere chiaro: con questi cambiamenti, mi aspetto che le persone passino meno tempo su Facebook e alcune misure di coinvolgimento siano rimosse. Ma mi aspetto anche che il tempo passato su Facebook sia più prezioso”.

Subito dopo il titolo di Facebook è crollato in borsa del 4,5 per cento. Il ragionamento degli investitori è facilmente intuibile: a rendere redditizio il social network è il tempo che gli iscritti trascorrono online. Meno tempo, quindi, significa meno soldi, almeno sul breve termine.

Per gli osservatori la mossa di Zuckerberg è dettata dalla necessità di rendere più “sostenibile” la crescita della piattaforma, concentrandosi sui benefici per la comunità a discapito dei guadagni (che secondo alcuni resteranno comunque consistenti, considerando il regime di duopolio con Google sugli annunci online) . In passato, alcuni esperti si sono convinti che l’uso dei social network ci renda meno felici e, in dicembre, la stessa compagnia, in questa sorprendente pubblicazione, ha ammesso che il consumo passivo di contenuti abbia effetti psicologici non buoni.

Se si tengono in considerazione simili presupposti, la mossa dello stato maggiore di Facebook è più chiara: incoraggiando gli iscritti a interagire, Zuckerberg intende migliorare la qualità del tempo speso sui social e correggere il meccanismo delle bolle, più volte collegato all’estremismo e all’auto referenzialità di alcuni ambienti sul web.

Un’altra serie di accuse, infatti, riguardano il pericolo rappresentato dal social network nel contesto democratico. I tentativi di Facebook di opporsi alla circolazione di fake news sono stati giudicati timidi e inefficaci. Svantaggiare i link nella sezione notizie potrebbe essere un passo indietro rispetto a ciò che, secondo alcune interpretazioni, l’azienda di Menlo Park è destinata a diventare: il canale portante del dibattito in un paese democratico.

Funzionerà? Per The Verge l’esempio di WhatsApp potrebbe essere indicativo: “L’applicazione posseduta da Facebook non ha una sezione notizie, eppure bufale e propaganda ancora dilagano”. Ma la vera notizia è che, dopo una crescita continua alimentata da ambizioni spropositate, a Menlo Park “hanno scoperto il valore di muoversi lentamente”.

Per Robert Cyran del Nyt questa decisione “colpirà finanziariamente la compagnia sul breve termine”, ma avrà l’effetto positivo di rendere gli utenti più felici mentre scrollano la homepage. Per Farah Manjoo, che ha scritto un altro articolo di segno opposto sempre per il Nyt, “la storia suggerisce quanto sia difficile alterare i principi della sezione notizie”, cioè una “facile indignazione virale” da dimenticare subito dopo che si è schiacciato il pulsante “mi piace”.

In passato simili decisioni hanno preoccupato i giornali, che dipendono in misura sempre maggiore dalla loro presenza su Facebook, Twitter ed altri social network. Le testate si sono spesso adeguate alle regole di Zuckerberg. Ad esempio, quando l’algoritmo privilegiava i video, molti quotidiani hanno caricato contenuti nativi direttamente sulle loro pagine. I video, inoltre, sono stati raccolti in Facebook Watch, la web tv accessibile dall’app (ma solo negli Stati Uniti), recensita tutt’altro che bene dagli esperti del settore. Per chi ne parla male, è solo un modo di impiegare il tempo nella maniera peggiore, cioè visionando sterili contenuti virali, perlopiù di cattivo gusto.

Sullo sfondo si stagliano le critiche dei fuoriusciti della Silicon Valley. Alcuni hanno raccontato di non dormire la notte per ripensare a cosa è andato storto e a un modo di porre rimedio agli errori commessi. In questo articolo di Hive, il magazine di Vanity Fair, ad esempio, alcuni ex impiegati descrivevano Zuckerberg come una persona sola e scollegata dal mondo, mentre in questo articolo del Guardian, Justin Rosenstein, l’inventore del “mi piace”, ha detto di aver delegato la gestione dei suoi canali social a un media manager e di aver ripulito la sezione notizie dagli articoli dei giornali.

GIUSEPPE GIORDANO

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