La lotta alle emissioni di gas serra non è certo cominciata vent’anni fa ma quell’anno, in Giappone, il protocollo di Kyoto messo a punto l’11 dicembre rappresentò il primo impegno dei governi nei confronti del tema ambientale. Due decenni più tardi stilare un bilancio è difficile. Nel frattempo, infatti, si sono sovrapposti altri piani caratterizzati da obiettivi differenti, mentre la geografia geopolitica ha cambiato i propri confini con il rilancio della Cina e lo sviluppo di Paesi come l’India, mentre il comportamento ambivalente degli Stati Uniti ha rappresentato un freno alle politiche ambientali. I segnali non sono molto incoraggianti. Ecco che cos’è accaduto, andando con ordine.
1997, il protocollo di Kyoto
Undici dicembre 1997. Durante la Conferenza delle Parti “COP3” della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) nella città giapponese di Kyoto viene redatto il protocollo che stabilisce gli obiettivi da raggiungere nel contenimento delle emissioni di gas serra. Il testo assegna obiettivi differenti a 40 tra Paesi e gruppi di Paesi: all’Italia, per esempio, è richiesto di ridurre di almeno l’8% le emissioni degli elementi inquinanti come anidride carbonica, metano, ossido di azoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi ed esafluoruro di zolfo. Il target da raggiungere non è lo stesso per tutti: gli Stati Uniti dovrebbero abbassare del 7% la quantità di gas serra, la Russia rimanere stabile sul livello raggiunto (sono gli anni del rilancio dell’economia russa, che non va frenato), mentre Islanda e Australia potrebbero persino aumentare i propri quantitativi in una misura rispettivamente del 10 e 8%, sulla base delle emissioni registrate fino a quel momento. È la cosiddetta fase 1 del protocollo, che prevede anche di raggiungere un obiettivo congiunto tra tutti i firmatari: registrare il -5% di gas serra tra 2008 e 2012.
Una finestra di quindici anni, ma che di fatto si riduce a molti di meno a causa del ritardo nell’adozione del testo stilato a Kyoto. Per entrare in vigore, infatti, è necessario attendere la firma di almeno 55 Stati che, complessivamente, producano almeno il 55% delle emissioni inquinanti. La condizione viene raggiunta solo nel novembre del 2004 grazie alla Russia, quando gli Stati Uniti avevano già abbandonato il piano. Un bilancio sui risultati, tuttavia, non è mai arrivato. Al 31 dicembre del 2012, infatti, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, riunita a Doha tra novembre e dicembre, ha già disposto il rinnovo del Protocollo di Kyoto fino al 2020.
L’emendamento di Doha
In Qatar, nel 2012, si arriva al rinnovo del piano di riduzione di emissioni di gas serra: quello che è noto come l’emendamento di Doha rappresenta il nuovo orizzonte ecologista, con termine al 2020. Obiettivo, ridurre le emissioni di gas serra del 18% rispetto al 1990.
Il testo, che nelle intenzioni dei 37 promotori (tutti i membri dell’Unione europea, Australia, Bielorussia, Croazia, Islanda, Kazakhstan, Norvegia, Svizzera e Ucraina) avrebbe dovuto coprire il periodo di transizione tra 2012 (scadenza del Protocollo di Kyoto) e 2020, non è mai entrato in vigore. Sono infatti 95 i Paesi che finora hanno firmato l’emendamento, cioè appena due terzi di quelli necessari (144), un numero che rappresenta i tre quarti di quanti avevano aderito a Kyoto (192). L’ultima ad aver firmato il testo di Doha è stata la Svezia, lo scorso 14 novembre.
L’accordo di Parigi
A novembre 2015, nel corso della Cop di Parigi, 195 paesi hanno adottato il primo accordo universale e giuridicamente vincolante sul clima mondiale. Limitare l’aumento medio della temperatura mondiale al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali, puntando alla soglia di 1,5 gradi, come obiettivo a lungo termine. Nel breve, invece, l’intenzione è far sì che le emissioni globali raggiungano il livello massimo al più presto possibile per poi cominciare a ridurle sensibilmente. L’accordo è in vigore dal 4 novembre del 2016 e al momento è stato ratificato da 170 dei 197 Paesi.
Gli Stati Uniti salutano, leadership alla Cina
Tra i 170 Paesi ci sono anche gli Stati Uniti, che lo scorso giugno hanno però annunciato l’intenzione di ritirarsi dall’accordo. Un passaggio per il quale ci vorranno quattro anni, anche se nelle ultime settimane il presidente Donald Trump ha aperto uno spiraglio per la permanenza degli Usa. La decisione della Casa Bianca imprime comunque una svolta sul piano geopolitico, perché dall’altra parte del globo la Cina ha intuito l’opportunità di prendere in mano la leadership dell’accordo di Parigi. Da Pechino, durante il congresso del Partito Comunista dello scorso ottobre, Xi Jinping ha confermato l’intenzione di rispettare l’accordo di Parigi.